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Campioni nazionali

Incantati da Martina

Colpisce con gli occhi che sorridono e ha vinto contro l’astro nascente Usa Cori Gauff e la fortissima greca Maria Sakkari, n.24 del mondo: la Trevisan comincia a 26 anni una carriera da stellina mondiale che aveva troncato a 16. Una storia… da favola

di | 04 ottobre 2020

Martina Trevisan gioca il diritto sorridendo

Martina Trevisan gioca il diritto sorridendo

Quella gioia, quel sorriso. Ma soprattutto, quegli occhi. Quegli occhi che sorridono, in cui è facile perdersi perché dietro leggi un mondo. Meraviglioso.

Cerchi tra le foto di Martina Trevisan dopo la vittoria con Kiki Bertens 64 64 al Roland Garros nella più grande libreria fotografica del mondo, quella di Getty Images, e resti di stucco: sorride anche quando picchia la palla. I suoi occhi sorridono.

Poi cerchi di conoscerla un po’ di più andando a trovarla nei suoi profili social, questo strano modo che la modernità digitale ha di farti entrare nelle vite degli altri, a volte come se tutti fossimo amici intimi. Cosa che non siamo.

E anche lì i suoi occhi ti catturano, mandano bagliori di quella ricchezza interiore che ha saputo portare una ragazza che compirà 27 anni il prossimo 3 novembre negli ottavi di finale al Roland Garros per la prima volta. Le ha fatto vincere le sue prime tre partite in uno Slam. Una seconda vita risplendente per chi aveva scelto, 10 anni prima, di chiudere con la racchetta e con una certa idea di felicità.

Lo racconta lei stessa, in prima persona, in un citatissimo articolo confessione pubblicato qualche mese fa su “The Owl post”, intitolato “Metamorfosi”. E in cui si parla di crisalidi e farfalle.

Che una metafora del genere possa essere utile per parlare di una sorta di seconda vita, seconda occasione per una ragazzina che aveva vinto tutti i titoli italiani possibili (Under 12,14,16), era stata n.57 delle classifiche mondiali juniores, aveva raggiunto le semifinali in doppio negli Slam juniores a Parigi e Wimbledon, e poi aveva smesso, ci può stare.

Nella realtà quella che oggi sorride in modo contagioso, sorride quando picchia, sorride quando guarda il segno di una palla avversaria che le dicono “buona” mentre a lei pare proprio “fuori”, è sempre lei. Cresciuta, diventata grande, passata attraverso quei frangenti della vita che o ti uccidono o ti rendono molto più forte.

Passata attraverso un’infanzia felice con la racchetta in mano da quando aveva 4 anni al CT Perignano, appena fuori Pontedera, provincia di Pisa. Lì dove la mamma insegna a giocare. Il talento mancino che spicca e si nutre di una famiglia sportiva (il padre Claudio è stato calciatore professionista, 3 anni in Serie B con la Sambenedettese).

Passata attraverso la vertigine di un’adolescenza in cui tutti si aspettavano meraviglie tennistiche e invece emergevano seri problemi famigliari ed esistenziali.

Lo racconta lei meglio di chiunque altro: "Dentro le mura di casa non si respirava un’aria serena ed io passavo molto tempo ad allenarmi. Anche quando avrei sicuramente avuto bisogno di fare altro. Anche quando avrei preferito avere qualche ora in più per fare un giro con le amiche o per riposarmi. Dentro di me sentivo di avere una sorta di responsabilità. Come se la mia ferrea dedizione al gioco avesse in qualche modo potuto curare le ferite della famiglia intera. Io dovevo essere la cura, non potevo certo stare male.

Avrei fatto bene a farlo, stare male intendo. Avrei dovuto imparare a pretendere ritmi più tranquilli, per vivere con maggiore leggerezza un momento per me tanto delicato.

Momenti di decompressione, desiderati e mai avuti, che poi, di colpo, ho tramutato in 7 giorni liberi a settimana. Ho lasciato la racchetta nell’armadio di casa e non ho più voluto saperne del tennis. Stop.

Ero una quindicenne che voleva vivere come una quindicenne, recuperando, magari con gli interessi, tutto ciò che sentivo di aver perduto negli anni precedenti. Senza tante regole. Senza preoccuparmi di far tardi perché il giorno dopo avevo una partita. Senza il bisogno di nascondere i miei muscoli allenati dentro a maglie di taglie comode”.

Passata dal baratro dell’anoressia: "I nuovi equilibri su cui poggiava la mia famiglia mi avevano destabilizzata. A papà era stata diagnosticata una malattia degenerativa e questo lo ha reso sempre meno presente nella mia crescita.
Non è stato facile vedere mamma ricostruire la sua quotidianità con una nuova persona accanto, che aveva sempre fatto parte della mia vita, ma sotto un’altra luce. Ero arrabbiata con lei e non conoscevo altra arma per ferirla che non il suo amore per me.
Combattevo contro tutto ciò che rappresentava il mio passato da atleta, sul quale tutti avevano riposto grandi speranze ed ambizioni, dimentichi della persona che dietro quell’atleta soffriva. Detestavo il mio corpo muscoloso e mi imponevo diete al limite della sopravvivenza pur di perdere peso.

30 grammi di cereali e un frutto la sera. Era quanto mi bastava per stare in piedi, e per far preoccupare mia madre, che correva a cogliere le pesche dagli alberi pur di vedermi mangiare qualcosa.

Nella mia testa, come in un paradosso, avevo l’impressione che solo sparendo le persone sarebbero riuscite a vedermi davvero, ad interessarsi. Ad occuparsi di me”.

Martina a un certo punto smette di giocare e decide di scomparire, anche fisicamente. Il sito della Wta registra il suo ultimo incontro all’ ITf da 10.000$ di Vinaros, Spagna nel dicembre del 2009: la sconfitta la secondo turno contro l’olandese Elise Tamaela, n. 672 del mondo.

Tra quella partita e il marzo del 2014 c’è un’ottovolante esistenziale che l’ha scolpita dentro. Nello stesso periodo anche suo fratello Matteo, talento fulgido come e forse anche più del suo (vincitore del Trofeo Bonfiglio e n.1 del mondo juniores nel maggio del 2007) abbandona i sogni di gloria per ritagliarsi giovane e semplice maestro di tennis.

Lei, finito il liceo, si mette a dare qualche lezione al Tennis Pontedera. Insegna a bambini, ragazzi e adulti e le piace. Poi però comincia a chiedersi se era la vita che voleva davvero.

E nel maggio del 2014 telefona a Giancarlo Palumbo, responsabile del Centro Tecnico Nazionale FIT di Tirrenia. Vuole riprovarci e ha  bisogno di un punto di rifermento per allenarsi. La accolgono a braccia aperte. In maggio arriva il primo risultato, registrato dalla Wta: quarti di finale all’ITF da 10.000 dollari di Caserta partendo dalle qualificazioni.

Chissà se Martina ha ricominciato a sorridere già quel giorno. Strada da percorrere ce n’era comunque tanta, nonostante quel diritto mancino che spesso taglia il campo come burro. Nonostante quella testa pensante come poche altre.

A fine 2014 era n.571 del mondo. A fine 2019 n.153. In mezzo 9 titoli ITF, le prime partite a livello Wta nel 2017, compresi gli esordi in tabellone a Wimbledon e agli Us Open.

La sua scheda Wta, alla voce Highlights, recita: finale in doppio al torneo di Palermo 2020 (insieme a Elisabetta Cocciaretto), convocazione in azzurro per la Fed Cup nel 2017, 2019 e 2020.

Fino ai nuovi highlights di questi giorni a Parigi, dove gli occhi di Martina sorridono e brillano, brillano e sorridono. Dove i suoi colpi hanno trovato come per incanto tutti gli incastri giusti. La vedi lottare contro Cori Gauff, n. 51 del mondo, e Maria Sakkari, n.24, tenniste che fino a ieri sembravano su un altro pianeta, e lei fa sempre la cosa giusta.

Le altre corrono, sbuffano, lottano. Lei più di loro, ma sempre sorridendo. E’ una gioia contagiosa, che ti tiene attaccato alla partita un punto dopo l’altro. E alla fine ti incanta.

Ora che è tra le migliori 8 del tabellone. Fine corsa? Perché mettersi dei limiti: in fondo ride bene chi ride…


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