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Polemiche per la celebrazione dei 50 anni del Grand Slam di Margaret Court, leggenda del tennis australiano ma conservatrice cattolica fortemente schierata contro la comunità LGBTI+. Eppure a Melbourne il giorno della finale maschile in agenda anche il più grande torneo arcobaleno del mondo
di Gabriele Riva | 30 gennaio 2020
Si vedono, ben marcate e ben distinte, due metà campo anche nella posizione di Mr Tiley, numero 1 di Tennis Australia e dello Slam down-under, e in definitiva della governance degli Australian Open. Il legame da preservare con la storia di una campionessa leggendaria e la responsabilità (e il dovere, secondo gli indicatori anche economici…) di non emarginare nessuno, anzi includere sempre più. Tutelando le differenti sensibilità, a prescindere da credo, razza e, per l’appunto, orientamenti sessuali. Con tanto di iniziative più che pratiche, che non mancano affatto.
Eh sì perché in carriera lei, la signora Court, nata Smith (poi prese il cognome del marito Barry), ha vinto 24 Slam, come neanche Serena è riuscita fin qui, ferma un gradino sotto e impegnata a rincorrere il suo fantasma in carne e ossa che a ogni Slam si allontana sempre più pur restando inchiodato lì.
FOTOSINTESI: LA CARRIERA DI MARGARET COURT PER IMMAGINI
Nella sua altra metà campo, opposta alla versione leggendaria da 92 titoli nell’Era Open, c’è la Margaret Court fondatrice del Victory Life Center, una chiesa pentecostale che guida in prima persona a Perth, dove risiede. Non ha mai lesinato giudizi pesanti sui comportamenti lontani dalle Scritture, specialmente sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, non lasciando fuori dal mirino nemmeno le protagoniste del tennis, vedi Casey Dellacqua tra i casi più recenti.
La polemica era già scoppiata tempo fa, quando le esternazioni mai timide della 77enne Court cominciarono a diventare oggetto di discussione. Si alzarono voci critiche e proposte forti: la prima, levare il nome dell’Arena che le era stata intitolata nel 2003, lo stesso anno in cui il governo australiano le rese gloria stampando la sua faccia, come quella di Laver, sui francobolli.
Cresciuta da cattolica secondo i precetti di Santa Romana Chiesa, negli Anni ’70 passò al Movimento Pentecostale e fu ordinata ‘ministro’ spirituale nel ’91.
Di soli due anni fa la sua lettera alla Qantas, principale compagnia aerea australiana, accusandola di essere troppo sensibile alle istanze di chi professava la legittimità dei matrimoni di persone dello stesso genere e dichiarando il proprio personale boicottaggio.
Quest’anniversario non ha fatto altro che dividere. E con quelle premesse non era difficile immaginarlo. Anche perché la linea dei vertici di Tennis Australia, cerchiobottisticamente, non conciliava la depolarizzazione.
Così anche gli Australian Open hanno mostrato incontrovertibilmente le proprie due metà campo contrapposte: solidali a parole - e come stiamo per vedere anche con i fatti - con la comunità LGBTI ma indisponibile a troncare i fili con una delle sue leggende più immortali, per quanto controversa.
Sì, perché parallelamente alla prova di forza contro chi voleva e vuole cancellare dalla memoria le imprese dell’ex campionessa, gli Australian Open si dimostrano uno degli eventi - se non l’evento - più aperti nei riguardi della comunità che la Court tanto prende di mira.
Per dare un’idea, quest’anno sulla Rod Laver Arena sono state installate per la prima volta delle toilette gender-neutre (né maschili né femminili) per tutelare al meglio le sensibilità di ognuno.
#InTheNews
— Pride in Sport Australia (@PrideinSportAU) January 20, 2020
Over 200 tennis players will be at the @AustralianOpen next week competing at Australia’s biggest LGBTQI tennis tournament, the Glam Slam.#PrideInSport 🏳️🌈🎾@TennisAustralia @VicTennis @theheraldsun @heraldsunsport https://t.co/rW1waWGgZh