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La tecnologia dei device indossabili per misurare i dati degli atleti è utilizzata in tutto il mondo dello sport. A Milano è a disposizione dei Next Gen, che però al momento nei match prediligono la libertà di movimento. In partita lo hanno usato solo Kecmanovic ( sempre) e Humbert (nell'ultimo match). “Ma è utilissimo”, sostiene Riccardo Piatti
di Gabriele Riva | 07 novembre 2019
A ben pensarci però non stona il fatto che calciatori e giocatori di football fatichino meno dei tennisti ad abituarcisi. Nel caso del pallone, il fulcro della ‘sensibilità’ sta quasi tutta nei piedi, e pure per running back e defensive back, impegnati tra corse, sportellate e protezione di palla, indossare uno strato in più oltre a caschetto e protezioni non deve fare tutta questa differenza.
Storia diversa per chi alla ‘parte sopra’ del corpo affida buona parte dei suoi successi sul terreno di gioco. E magari è abituato a farlo, rincorrendo l’estate nel tour o nei palazzetti indoor, indossando soltanto un sottilissimo strato di materiale ultratecnico.
Nel mondo del tennis - quello del mercato di base, degli appassionati - esiste anche il pregresso dei sensori applicabili (o già applicati) alle racchette per misurare colpi, zona d’impatto, effetti impressi.
Le più grandi aziende del settore, direttamente o tramite partnership con realtà dell’hi-tech ci si erano tuffate ormai quasi un decennio fa. Ma il mercato non ha mai fatto veramente boom, sicuramente non come quello del data-tracking di altre discipline, come il running.
Ricapitolando, dall’Allianz Cloud Humbert fa sapere di “sentire un corpo estraneo addosso, andrà bene negli allenamenti e durante la preparazione ma durante i match meglio di no”. Stessa linea per Davidovich Fokina e Ymer: “Nella off-season sarà utilissimo”. Per De Minaur e Tiafoe “in futuro diventerà fondamentale, ma non qui e non ora”.
Quindi? Wearable device, big data e hi-tech sono prêt-à-porter? Oggi no, domani forse ma dopodomani… sicuramente.