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Campioni nazionali

Matteo, emotivo come Federer

Berrettini ha vinto la partita più emozionante del torneo ma soprattutto ha battuto la sua emotività: l’avversario che lo aveva bloccato a Wimbledon contro Federer. E’ partito tesissimo, poi si è sciolto ma alla fine stava per crollare un’altra volta. E ha reagito da campione

di | 05 settembre 2019

Il ruggito di Matteo Berrettini

“E’ un grande giocatore, lo guardavo sempre da bambino”. Lo dice Matteo Berrettini prima del match contro Gael Monfils. Ed è quello il pensiero che lo frega.
Gli imbriglia la racchetta, gli impedisce di essere anche affrontando la sfida con Gael Monfils il pistolero con il diritto più veloce del West.
E’ una storia che sembra ripetersi, dopo il flop all’esordio sul Centrale di Roma contro Fabio Fognini, due anni fa. Dopo gli ottavi di finale contro Federer quest’anno a Wimbledon in cui non gli è riuscito niente, proprio niente del suo solito gioco . Momenti non piacevoli da ricordare.

Le prime volte sono il suo tallone d’Achille. E’ un emotivo. Come Federer. E un bravo ragazzo, con la testa sul collo. Capisce il valore delle cose. Quindi quando affronta un palcoscenico importante, un luogo della storia, o un avversario con un’aura particolare, soffre. Sente il dovere di essere all’altezza. E quell’altezza, la vede… altissima.

Contro certi personaggi di cui ha visto in giro i poster quando era ancora alle scuole medie, gli sembra sempre di dover fare qualcosa di più. Di più difficile, di più rapido, di più rischioso, di più complicato. Perché a quel livello….

La palla allora scotta, niente più è semplice.

E’ successo anche e soprattutto contro Monfils. L’appuntamento combinava due situazioni inedite: i primi quarti di finale in un torneo del Grande Slam (nello stadio più grande del mondo, l’Arthur Ashe) e il primo faccia a faccia contro un tennista del carisma di Monfils. Uno che oggi è n. 13 del mondo ma è stato n. 6 nel 2016, ha vinto 8 tornei, giocato due finali di Coppa Davis, fatto semifinale a Parigi e a New York, ha battuto quattro volte Federer.

Berrettini l’impacciato sbaglia tutto per un set

Quello del primo set era la versione Us Open del ragazzone impacciato di Wimbledon che stringeva la mano a Federer chiedendogli quanto gli doveva per la lezione. Ma Monfils non era Federer. E la punizione è stata meno severa.

Di fatto il francese ha giocato nel modo migliore per mettere in difficoltà l’azzurro. Un muro di gomma con accelerazioni improvvise. Ace e servizi vincenti. Risposte attutite, morbide, alte ma profonde. Palle apparentemente appetitose ma con un tempo completamente diverso a quello di tutti gli altri, un ritmo che ti intontisce.
Picchi, picchi e lui te la rimanda sempre. Muro di gomma. Ripicchi e sbagli. Poi allora rallenti un secondo e della sua racchetta parte un missile. E tu non capisci più niente.

Nella sua soggezione emotiva Matteo pensava di dover essere qualcosa di più del Berrettini che spara dentro la ‘prima’ e conquista quasi il 90% dei punti.

Il Berrettini che ha schemi semplici e devastanti, un po’ irrigidito da quest’ansia di prestazione, faceva cilecca sulle sue giocate classiche e ne tentava un sacco di altre molto più difficili, complicate. E non faceva che sbagliare sempre più perché Monfils è capace di rimandarti di là una palla che pare uno straccio bagnato anche quando gli indirizzi un missile.
La mano del romano, di solito leggera e delicata sotto rete, diventava un guanto di ferro da cavaliere medievale. Come a Wimbledon con Federer, a un certo punto non gli riusciva più niente.

Un paio di ‘pallottole’ e l’incantesimo si rompe

Questo doloroso incantesimo si spezzava all’inizio del secondo set, con un paio di pallottole di diritto giocate d’istinto. Il Berrettini semplice. Quello che fa Bum Bum. A quel punto, come spesso inspiegabilmente accade nel tennis, anche Monfils sentiva che c’era qualcosa di diverso nell’aria. E regalava il game del controbreak con un paio di erroracci.

Era la conferma che inconsapevolmente Berrettini aspettava: anche loro, quelli dei poster, hanno le stesse fragilità, solo che hanno fatto pace con se stessi, non hanno fretta di dimostrare alcunchè. Sbagliano e quando succede… non succede niente. Non si mettono in discussione. Sanno che è normale.

Così, piano piano, nel secondo set Berrettini è ridiventato Berrettini. E Monfils il campione che sappiamo: forte, atletico, ostico ma mancante di qualcosa rispetto ai ‘più grandi’. Uno del livello di Berrettini ma con dieci anni di più. Uno con un tennis meno aggressivo di quello dell’italiano. Uno cui puoi sempre portar via il comando del gioco.

Non a caso, girava anche il punteggio. E l’ace con cui Matteo chiudeva il secondo set era un marchio di fabbrica ma anche il segnale di equilibri ristabiliti. Specie nella sua testa.

Non serve SuperMatteo, basta Berrettini

Aveva capito che per battere Monfils non serviva SuperMatteo, bastava il ‘solito’ Berrettini. Quello che ha vinto tre tornei, che è solidamente tra i primi 20 del mondo e si era qualificato per questi quarti di finale a New York rompendo un tabù che durava dal 1977. Quello che applica in modo metodico, quasi ossessivo, il suo sistema servizio-diritto. O solo servizio (ace quasi fino a 220 Kmh). O solo diritto (missili vincenti alla prima esitazione dell’avversario nello scambio).

Il terzo set seguiva lo stesso flusso. Il quarto è stato una sorta di passaggio a vuoto riempito dal cuore temerario di Gael Monfils.

La prova di fuoco del quinto set

Quello che è successo alla fine è la summa delle esperienze di questa annata tennistica per Berrettini, quella vita da professionista con la racchetta che ha per compagni di viaggio “trionfo e disastro”, “Triumph and disaster” come scriveva Kipling (e come c’è scritto sulla porta del Centre Court di Wimbledon), entrambi da sperimentare e accettare con serenità per poter essere uomini.

Il set condotto con autorità, esattamente come il secondo e il terzo, fino a quell’indimenticabile match point, sul 5-3 40-30. Quell’indimenticabile doppio fallo, la seconda palla affossata con il braccio divenuto improvvisamente corto e rigido come quello di un tennista di club. L’attimo in cui si sono improvvisamente rimaterializzate tutte le tensioni, le emotività.

Riuscire a reagire dopo un momento così difficile, una così grande occasione sprecata; evitare di mettersi in discussione, subire l’aggancio dell’avversario (che sembrava “morto” e invece risorgeva continuamente) è stata una prova del fuoco.

Matteo Berrettini ha camminato su una linea sottile. Tra vincere e crollare. Tra bloccarsi e sparare.

Il suono del servizio vincente come un tappo di spumante

Il quinto match-point, quello decisivo, è arrivato con uno dei suoi formidabili servizi “made in Italy”, che fanno il suono di giganteschi tappi di spumante. Quelli che agitiamo e spruzziamo tutto intorno per festeggiare un giovane campione azzurro in semifinale agli Us Open, 42 anni dopo Corrado Barazzutti.

Il Capitano di Davis, nel box insieme ai tecnici Vincenzo Santopadre e Umberto Rianna, sarà sicuramente contento di non essere più solo lassù, nei piani alti della storia del tennis.

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