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L'azzurro ha vinto contro Schwartzman il secondo match in carriera al quinto set. Sfida da sogno negli ottavi contro lo svizzero, primo a raggiungere le 350 vittorie Slam
di Alessandro Mastroluca | 08 luglio 2019
Ha imparato che devi giocare anche quando in mano hai brutte carte. Sta lavorando al suo sogno e ha dimostrato che sì, sa essere più tosto degli altri. Appassiona Matteo Berrettini, quinto italiano negli ottavi a Wimbledon nell'era Open dopo Adriano Panatta (1979), Davide Sanguinetti (1998), Gianluca Pozzi (2000) e Andreas Seppi (2013).
La distanza lunga non lo spaventa, l'erba accende tendenze vecchie e nuove, antiche insicurezze e nuove forme di maturità. L'anno scorso a Wimbledon aveva rimontato due set di svantaggio a Jack Sock. Prima di salvare tre match point a Diego Schwartzman, al quinto non ci era più arrivato in carriera.
È un Berrettini springsteeniano, che va verso ovest e incontra la sua nuova frontiera. Si fa orgoglio della nazione italica nella perfida Albione che si trasforma nella terra dei sogni e delle speranze. È un cuore affamato, non dimentica i legami che lo avvincono e insieme accumula giorni di gloria da contemplare più in là, quando verrà il momento.
Inquieto, nel primo set ricava meno di un punto diretto ogni tre servizi. Di fronte alla regolarità tenace del “Peque” Schwartzman, forgiato dal fisico e dalla vita a interpretare ogni centimetro guadagnato come una beffa dovuta al destino, Berrettini rischia, sbanda, sbaglia. Ma non arretra.
Torna in versione “radio”, si parla addosso praticamente ad ogni punto. Un bubbolìo continuo, un borbottio che fa da sottofondo a un confronto di geometrie e di personalità che intanto cambia tono e colore.
Il pubblico sul campo 18, teatro della maratona da leggenda tra Isner e Mahut nel 2010, si schiera per Berrettini. Nemmeno la sportività dell'argentino che si complimenta per le chiamate dei giudici di linea riesce a fargli guadagnare più di qualche “vamos” isolato. Ma non ha bisogno di conquistare il pubblico, per lui conta solo l'avversario.
Nell'universo limitato dalle righe e dalla rete, non sono i centimetri che fanno la differenza. Il “Peque” sa che senza gambe forti e resistenti non arriverebbe da nessuna parte, e alle gambe si affida. Ma oltre alle gambe c'è di più. C'è una testa che ragiona ad alta velocità, c'è una corrispondenza di pensiero e azione che accelera il copione della partita. Fino ai match point, tre ma non di fila, che Berrettini salva. Fino al tiebreak del quarto set che contiene la distanza tra il bozzolo e la farfalla, tra il buonissimo giocatore e il progetto di campione.
Ha vinto senza giocare al meglio. Ha vinto perché non si tira indietro, perché sa essere più tosto degli altri. Ha il sorriso da ragazzo e la faccia da uomo con le spalle larghe. Un uomo che ha incontrato le guide giuste, persone speciali come il coach Vincenzo Santopadre, il consulente tecnico Fit Umberto Rianna e il mental coach che ha ringraziato con parole non certo di circostanza dopo il titolo vinto sull'erba, il secondo di sempre per un italiano dopo il titolo di Seppi a Eastbourne otto anni fa.
Ha percorso la sua strada per il successo senza pausa e senza fretta. Solo con le basi solide si arriva lontano. Ci ha messo una disponibilità ad imparare, ad assorbire dalle esperienze, dalle vittorie e dalle sconfitte, ci ha aggiunto i vasti orizzonti di una curiosità densa e tutt'altro che scontata.
È il ragazzo, l'uomo che illumina il tennista. La crescente consapevolezza nel modo di stare in campo rivela il recupero di un senso di leggerezza non frivola.
La costante ricerca del diritto pesante dopo una 'prima' esterna per comandare lo scambio si innerva su un piano di gioco elaborato, costruito su una rete di alternative facili da eseguire.
Come dire, l'energia va incanalata nell'individuazione della scelta giusta al momento giusto, il resto deve scorrere il più naturale possibile. E se qualcosa viene naturale, non serve pensare a come eseguirla.
L'ottavo di finale contro Roger Federer premia la costanza, la costruzione dell'ambizione che non cede all'impazienza della gioventù. “Qualcuno è nato sotto una buona stella, qualcun altro se la procura in qualche modo” canta Springsteen in Darkness on the Edge of Town. Adesso, sulla sua strada le luci si moltiplicano, le ombre si ritirano. E i sogni smettono di essere bugie, anche quelli che non si avverano.
Sfidare Federer a Wimbledon, quasi certamente sul Centrale, è una tappa sul cammino che porta al suo giorno di gloria. Perché non è mai finita, finché non è finita. E quelle linee bianche, quelle che circoscrivono l'universo geometrico di ogni campo da tennis, possono condurre ovunque. Non resta che prendere la mira e colpire. In fondo, tutti vogliono arrivare in cima. Ma non tutti sono pronti a fare quel che serve. La differenza è tutta qui.