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Campioni internazionali

Coraggio, Caroline: la sindrome junior ha colpito anche Sampras e Federer…

Come altri giocatori, anche molto più importanti, nelle semifinali degli US Open la Garcia paga da "pro" i problemi che ha avuto da under 18 contro un’avversaria: nel suo caso Ons Jabeur

di | 09 settembre 2022

Caroline Garcia tonerà nella Top 10 con le classifiche di lunedì prossimo: era già stata n.4 del mondo nel settembre del 2018 (Foto Getty Images)

Caroline Garcia tonerà nella Top 10 con le classifiche di lunedì prossimo: era già stata n.4 del mondo nel settembre del 2018 (Foto Getty Images)

Caroline Garcia è stata soffocata sin da subito dal nomignolo di tutti, “Caro”, per via di un animo buono e gentile, per il sorriso timido, per lo sguardo sempre basso, le parole sussurrate, soprattutto davanti al solito ingombrante papà del tennis donne, Louis. I media francesi ci hanno messo il corpo, celebrandola sulla falsariga dell’altro bambino prodigio, Richard Gasquet. Che s’è fermato alla famosa copertina del famoso giornale che gli prediceva un futuro da numero 1.

IL SOLITO PAPA’

“Caro”, del resto, ha vinto sin dal via, ma poi s’è anche fermata spesso a pensare, impaurita da tutta quella grandezza ed impegno e pressione e tensione che la sovrastava negli anni. Prima si è appoggiata a una spalla forte, la possente doppista Kristina Mladenovic, con cui condivideva problemi personali analoghi e realizzava i sogni di gloria almeno in coppia portando anche la Francia al trionfo di Fed Cup. Poi ha tagliato almeno nella cosa tecnica e nella troppo assidua frequentazione in campo il cordone ombelicale con papà, relegandolo a un ruolo di supervisore e sostituendolo con un allenatore-saggio-padre, transitando da Gabriel Urpi (ex guida di Flavia Pennetta) a Bernard Perret.

Così ha ritrovato il filo di se stessa, perché tanto il suo gioco è sempre stato lo stesso: tirare, attaccare, spingere. Ma proprio perché così totale ha bisogno più che mai della componente fiducia in se stessi. Che “Caro” ha acquisito sempre più aggiudicandosi 30 delle ultime 34 partite, con anche 13 partite vinte di fila, risalendo dalle qualificazioni di Cincinnati alle semifinali degli US Open e recuperando dal n. 79 del mondo alle top ten della prossima settimana. Strada facendo si è anche tolta qualche sassolino dalle scarpe: contro quelle antipatiche di Riske e Gauff. Fino quasi a convincersi di aver davvero imparato la lezione più difficile: “Gestire le emozioni, stare calma e concentrata su ogni punto, estraniarsi dai fattori esterni, giocare solo a tennis, smetterla di parlarsi addosso in campo, come un ventriloquo”. Caroline Garcia si era quasi convinta che “Caro” la positiva avesse vinto la guerra con “Caro” la negativa. Quasi.

PASSATO CHE RITORNA

Ahilei, prima della semifinale, la Garcia si è riscaldata nei campi esterni, al caldo, lontana dai riflettori, già mettendo le mani avanti a difendersi dalle nuove tensioni al vertice di cui aveva di nuovo terribilmente paura: “Avevamo bisogno della nostra routine, per vivere la semifinale come una partita qualsiasi”.

Anche se in realtà non sapeva che il campo dell’Arthur Ashe era libero e avrebbe potuto acclimatarsi alle dimensioni e all’atmosfera. Così, come chi passa all’improvviso dal buio profondo alla luce più accecante, non ha quasi sentito lo start, comunque non ha reagito per un po’, paralizzata sui blocchi di partenza, e poi sempre scomoda, lenta, impacciata, dubbiosa, lontana dal campo e dalla realtà. Come se fosse preda di un sortilegio, di una forza estranea e misteriosa che le legava braccia, gambe e volontà.

Caroline Garcia e Ons Jabeur prima della loro sfida agli Us Open (Foto Getty Images)

Un rischio possibile, come ben sapeva, in primis, il suo allenatore, che ha guidato dal 2018 al 2020, l’avversaria, Ons Jabeur, cambiandole il tennis, la vita e la classifica, portandola dal numero 110 al 45 del mondo e mettendola sulla rampa di lancio verso addirittura il numero 2. Perché, da juniores, “Caro” aveva già perso 4 volte su 4 contro la piccola tunisina dal gioco diverso e spettacolare, che si esalta nelle smorzate e negli attacchi in contro tempo. E, con le esperienze “pro”, dopo questo annichilente 6-1 6-3 in 66 minuti di New York, è arrivata al non invidiabile bilancio di 0-7.

Del resto, quella contro Ons era la battaglia suprema della sua rinascita, l’ultimo test prima di acquisire il bollino di qualità delle prime della classe, e Caroline Garcia l’ha perso in ogni terribile momento, a cominciare da quando doveva pensare ancor di più, quand’era solissima con se stessa e doveva servire o rispondere. E, invece di pensare ad eseguire, si arrabbiava e si confondeva perché non ci capiva niente da ragazzina e non ci capiva niente nemmeno da grande di quel diavoletto di eroina africana, la prima di sempre che arriva così lontana agli US Open. “Devo rivedere tantissime cose, devo migliorare in tutto”.

ANTICIPO

Caroline sapeva benissimo che il tallone d’Achille di Jabeur è la seconda di servizio ma non è riuscita mai ad arrivare nemmeno alla palla-break. Speriamo che nessuna collega glielo dica: a Ons non era ancora successo quest’anno nei 57 match disputati. Caroline sapeva benissimo che quel che le dà più fastidio di Ons è il gioco a tutto campo, la capacità di utilizzare ogni colpo ma anche ogni centimetro del terreno, spesso inesplorati dalla maggioranza delle avversarie. Così la francese perde i punti di riferimenti e va in confusione coi suoi semplici schemi che ha rimesso insieme da gennaio in qua e non tira più nemmeno dove vede il campo buio di là del net, si blocca, si ritrae, diventa remissiva come nella vita privata. “Abbiamo giocato la semifinale juniores al Roland Garros e tante altre volte. Era raro trovare qualcuna che facesse così tante smorzate e tagliasse tanto il rovescio. Quando eravamo bambine era difficile capire il suo gioco e ora è ancor peggio”. 

SELF MADE… WOMAN 

Ecco, il problema peggiore era che “Caro” e Ons sapevano meglio e più di qualsiasi altro quello che era successo fra loro agli inizi della scalata nel tennis, quanto la Garcia soffrisse come l’orticaria tutti i colpi della tunisina e quanto invece la Jabeur si sentisse superiore proprio per quei precedenti vinti di test e di tennis.

“Ho usato quei ricordi a mio vantaggio”. Aggiungendosi un servizio maligno che invece di scaraventare di là del net le traiettorie alte che la francese si sarebbe aspettato, le recapitava fra i piedi, sguscianti come serpenti che escono da una scatola, palle sempre più basse.

“Non leggo il suo movimento al servizio, che è molto breve, non so mai dove mi manda la palla perché cambia continuamente, e mi ha spesso sorpreso con lo slice”. Morale: 8 ace e 21 vincenti di Ons, caricata a pallettoni dall’incontro della vigilia col suo idolo Andy Roddick. Che le ha raccomandato: “Vai fino alla fine”. Un altro grande, Andy Murray, aveva predetto qualcosa di anche più grande per Caroline Garcia: “Può essere la nuova numero 1”. Ma mentre Ons, costretta a risolvere da sola le mille difficoltà di una sognatrice nata in un paese lontanissimo dal tennis, senza aiuti e mille problematiche legate alla sua statura e alla scarsa potenza, ha imparato a cavarsela da sola, “Caro” ha avuto troppe attenzioni e troppe persone che si sono offerte di aiutarla e di sostenerla, difendendola e indebolendola anche. E nessuna di loro può cancellarle la paura di quell’incubo che le si è ripresentato fin troppo concreto davanti a New York. La Grande Mela, il cuore degli Usa, il paese nel quale si esalta chi si fa da solo: qui è ancor più lecito realizzare i grandi sogni di Ons Jabeur.

David Nalbandian e Roger Federer (foto Getty Images)

CORAGGIO, CARO!

Quello che Caroline Garcia non sa è che altri e più importanti giocatori prima di lei hanno accusato il confronto col passato, e quindi coi tornei juniores, ritrovandosi di fronte da “pro” i loro primi castigatori nel tennis. Eclatante il caso di Roger Federer con David Nalbandian: il Magnifico soffriva terribilmente il timing diverso e il rovescio dell’estroso argentino sin da quando ci aveva perso nella finale under 18 degli US Open 1998. Infatti poi, da professionista, si arrese 8 volte su 19 confronti. Addirittura le prime 5 consecutive, proprio come retaggio del comune passato, e poi clamorosamente nella finale del Masters (le ATP Finals di oggi) del 2005, e da un vantaggio di due set a zero.

Lo stesso era successo fra Michael Chang e Pete Sampras, col precocissimo figlio di immigrati di Taiwan negli States che, sulla scia dei giochini che gli faceva da juniores, superò “Pistol Pete” le prime 5 volte che lo affrontò da pro, e poi ancora clamorosamente, anche in considerazione della superficie, alle ATP Finals del 1995. Del resto, l’antipatia viscerale di Sampras verso Andre Agassi, col quale ha condiviso un delle più esaltanti rivalità al vertice del tennis mondiale ma del quale non è mai stato amico come per esempio Federer con Nadal, nasce proprio dai tempi juniores quando il punk di Las Vegas prendeva in giro il californiano chiamandolo ‘scimmia’ per la sua abitudine a tira fuori la lingua quand’era sotto pressione.

Lo stesso Rafa Nadal non ha mai perdonato Richard Gasquet per gli scherzetti che gli faceva in campo nei primissimi tornei giovanili, quando il francese sciorinava la sua tecnica sopraffina, irridendo gli avversari coi cambi di ritmo e i drop shot, e il ragazzo di Maiorca inseguiva invano quelle palle-saponetta, urlando dentro di sé la sua rabbia, e promettendo quella vendetta che, da “pro”, si è tradotta in 18 vittorie su 18 confronti.  

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