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Campioni internazionali

Ricci, l'italiano d'America con la Finlandia nel destino

Crsciuto sotto il profilo tecnico alla Evert Academy di Boca Raton, in Florida, Federico Ricci (originario di Parma) è finito in Finlandia per seguire prima Jarkko Nieminen, poi Emil Ruusuvuori. In questa intervista ci racconta il suo percorso decisamente particolare

di | 23 dicembre 2021

Una vita da coach tra Stati Uniti e Finlandia, due posti distanti, non solo geograficamente. Il percorso di Federico Ricci, emiliano di origine e cittadino del mondo per seguire il tennis, è decisamente originale e fuori da ogni schema precostituito. Oggi l'allenatore italiano è al seguito di uno dei talenti emergenti del tennis mondiale, il 22enne Emil Ruusuvuori, attuale numero 95 al mondo con un best ranking di 66 e un bel potenziale nel braccio. Ma è dagli States che è cominciato il suo cammino, all'inizio del nuovo millennio.

“Ho smesso abbastanza presto di giocare - racconta - anche per colpa di un incidente in moto in cui mi sono rotto il polso destro. Questo mi ha portato a pensare alla fragilità della carriera tennistica, dunque mi sono iscritto all'Università, in particolare alla facoltà di Economia con indirizzo di Sports Management. Proprio così ho avuto la chance di finire il percorso di studi alla Evert Academy di Boca Raton, dove poi ho iniziato a lavorare. Parliamo del 2001, 20 anni fa. Per i successivi 10 anni sono rimasto lì lavorando full time. La mia famiglia è di Parma ma sono cresciuto a Milano”.

“La mia passione tuttavia era il campo, era aiutare i giocatori in maniera più diretta e più concreta. L'Università ti consente di avere un'ottica più ampia del colpire la pallina, ma ciò che conta è il contatto diretto coi ragazzi. Alla Evert sono riuscito a fare entrambe le cose, così ho capito quello che mi piaceva di più. I colleghi italiani? Con loro mi confronto sempre. Non conosco le realtà dei circoli, ma conosco i coach che seguono i giocatori nel circuito”.

Cosa le ha dato l'esperienza alla Evert Academy?

“Alla Evert, quando ci lavoravo io erano anni fortunati, anni di transizione dove cercavano di farsi un nome perché l'Accademia era nata da poco tempo, c'erano tante cose ancora da sviluppare. Dovevano prendere degli allenatori di nome e di esperienza, che poi sono in effetti arrivati e coi quali ho avuto l'opportunità di crescere. Per esempio Joe Brandi, che aveva portato Sampras al primo Slam, o Andy Brandi, che è stato il mio supporto maggiore nella mia crescita. Da lui ho imparato tanto, è una persona intelligente e brava a trovare soluzioni”.

“Poi ho avuto fortuna, perché dopo il contratto della 'Evert' con la Usta, dal 2007 al 2011 abbiamo avuto la federazione americana in casa, sui nostri campi. Il che vuol dire avere gente come Brad Gilbert, Brad Stine, Tom Gullickson, Jay Berger che era responsabile del settore maschile: tutti coach di grande spessore con i quali anche solo scambiare opinioni era importante”.

“Nelle Accademie americane stai in campo tante ore, trovando soluzioni per giocatori diversi provenienti da diverse culture. In Florida ti capitano giocatori di ogni genere: dai russi ai sudamericani, e impari a gestire ognuno secondo le sue attitudini”. 

Perché oggi gli States non riescono a produrre un campione?

“Ho ancora tanti amici negli Usa, conosco molti che ancora oggi lavorano nel tennis ma l'ambiente non lo frequento come dieci anni fa. Oggi non dominano perché gli altri Paesi si sono sviluppati tanto. Inoltre, da loro è eccellente la parte alta dell'insegnamento ma l'educazione di base può essere migliorata. Se vai in Kentucky in un parco pubblico a vedere due maestri che seguono bimbi di otto anni, non vedi delle belle cose sotto il profilo tecnico. Arrivano pochi atleti all'alto livello. Ma hanno comunque dei buoni giocatori: Nakashima, Korda, Paul, Fritz, Opelka”.

“Il college? È uno sbocco alternativo o propedeutico importante, ma è un modello pressoché irripetibile altrove, perché negli Usa c'è un tessuto a livello nazionale che gli permette di sviluppare questo sistema. Potenzialmente è però un vantaggio per tutti i Paesi: Norrie per esempio ha beneficiato di questo sistema, come tanti altri europei. È un modello aperto”.

Come è arrivato in Finlandia?

“In Finlandia ci sono arrivato un po' volutamente e un po' per caso. Il trasferimento era nell'aria già dal 2010, quando Jarkko Nieminen mi fece questa offerta di seguirlo e sviluppare qualcosa per il suo post-carriera. In quel momento però avevo un paio di buoni progetti negli States e allora continuavo a posticipare. Poi durante gli Australian Open 2011 Jarkko ha insistito un po' di più e allora ho deciso di cambiare, anche perché ero un po' stanco di viaggiare tutto l'anno coi ragazzi. Ed ero stanco di stare in Florida: si vive in maglietta tutto l'anno ma la cultura è molto diversa dalla nostra. Fino a che hai 30 anni va bene, poi hai bisogno di altro. Così a metà maggio 2011 ho cominciato la nuova avventura”.

“Ho iniziato a lavorare con Nieminen per i suoi ultimi anni di carriera, anche se io mi concentravo già più sull'accademia invece che su di lui. La mia preoccupazione in partenza era di andare in un posto molto remoto. Ma ho riflettuto su una cosa: è meglio essere uno dei tanti in Florida, oppure uno che può fare la differenza in un piccolo Paese? E in effetti è stata una scelta corretta. Il cambiamento più impattante è stato il salto nel fare l'imprenditore di me stesso. Alla Evert ero un dipendente, non avevo rischi personali. Quando vai in proprio è un salto mentale che bisogna saper fare. All'epoca non avevo famiglia e ho pensato che potevo rischiare, così abbiamo creato l'accademia di Helsinki”.

“In Finlandia il tennis è popolare più di quanto si possa pensare. Non si trova un campo libero, certe volte anche io devo fare i salti mortali per trovare un campo di allenamento. Il covid forse lo ha reso ancora più diffuso. Per il resto, c'è solo l'hockey su ghiaccio”.

Ruusuvuori, l'erede di Nieminen con l'Italia in panchina

Emil Ruusuvuori è il suo progetto più importante. Da quanto lo segue?

“Abbiamo aperto l'accademia nel 2013 ed Emil è entrato a far parte del gruppo proprio quell'anno. Era un'accademia particolare, con un massimo di 15 giocatori, strutturata per il mercato finlandese, dunque per un bacino piuttosto piccolo. Abbiamo preso un paio di russi, ma un tedesco non va certo ad allenarsi in Finlandia. Sotto il profilo economico, noi avevamo 3-4 grossi sponsor ed era la condizione ideale perché così i ragazzi pagavano pochissimo. E noi potevamo scegliere davvero quelli che meritavano di andare avanti”.

Emil è un ragazzo che definirei artistico e sensibile. Se non ne aveva voglia, nessuno gli faceva cambiare idea. Ha rischiato di smettere, ma lo abbiamo aiutato e tra i 15 e i 16 anni ha ottenuto dei buoni risultati a livello internazionale, cominciando a capire che ne valeva la pena. Poi ha avuto degli infortuni alla schiena che gli hanno fatto perdere tanto tempo in termini di esperienza competitiva. È cresciuto però dal punto di vista tecnico e della disciplina mentale, perché ha imparato a curare il corpo nella maniera migliore possibile. Dopo una sconfitta al Bonfiglio, però, ricordo bene un'ora di pianto in hotel. Quando sei un tennista 'pro' finlandese, sei spesso da solo e questo non è sempre facile da gestire”.

Quali sono gli obiettivi con lui?

“Al momento una delle nostre priorità è trovare continuità. Sappiamo che può battere giocatori molto forti, come ha già fatto con Karatsev e Thiem, ma deve vincere queste partite in fondo ai tornei, quando conta. Deve durare più settimane allo stesso livello. Nel 2021 per tre mesi non ha fatto punti, causa un mezzo infortunio che era più un mezzo alibi. Magari vince un match difficile e perde quello dopo, più semplice. Qui è il punto dove dobbiamo migliorare”.

Il nostro rapporto? Sono anche un po' psicologo perché è un aspetto del coaching che mi piace. Quando hai ragazzi giovani devi essere così, del resto. Parli con persone in formazione che cercano di trovare la loro strada ma hanno davanti tante sfide da affrontare. È un adattamento costante a quello che ti capita, spesso per la prima volta. Nel caso di Emil tutto è amplificato, poiché lui a livello comunicativo non è il più espressivo di tutti, bisogna capirlo senza che lui parli”. 

“Prima del lockdown era rimasto fuori dai top 100 per 3 posti, e per sei mesi è rimasto lì nel limbo. Poi ci è entrato, ma a lungo è rimasto nel dubbio di poterci entrare o meno. In quel periodo siamo stati fortunati, perché Casper Ruud è venuto ad allenarsi con noi alcune volte, e siamo riusciti a lavorare in modo dignitoso anche nei momenti più duri della pandemia. Ora speriamo di continuare a crescere, sempre un passo alla volta”.

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