Cosa c’è dietro il buco nero in cui la giocatrice giapponese dice di essere caduta e per cui adesso prende una pausa dal tennis. “Guardo le notizie tra Haiti, Kabul, il Covid e penso che sia pazzesco che io stia qui a colpire una pallina da tennis e che la gente venga a vedermi giocare"
di Claudia Fusani | 05 settembre 2021
“Quando vinco non mi sento felice, solo sollevata. Quando perdo mi sento molto triste. Non è normale. Devo capire cosa voglio fare. Non so quando giocherò un’altra partita”. Tra una lacrima, una pausa, un sospiro e la visiera abbassata sugli occhi, Naomi Osaka saluta, almeno per un po’, il tennis. A 23 anni, da numero 5 del mondo, dopo essere stata la 1, quattro titoli Slam in bacheca ed essere tra le atlete più pagate al mondo (contratti per 37 milioni di dollari l’anno) e tra le più iconiche perchè bella, sangue misto (padre haitiano e mamma giapponese), cittadina del mondo e coraggiosa. Il paradigma di una moderna ragazza di successo.
Ecco, appunto: Naomi Osaka ha tutto questo, le è toccato in destino e se lo è conquistato, e cosa fa: si prende una pausa, stacca, deve portare la testa altrove. La decisione arriva dopo un annus horribilis.
Dopo la fiammata iniziale con cui porta a casa il titolo del primo Slam dell’anno, seguono cose mediocri finchè a giugno, a Parigi, si cancella dal tabellone perché non voleva più sottoporsi al rito delle conferenza stampa, obbligatoria per il giocatore (tutti) ad inizio torneo e alla fine di ogni match.
“Sono dannose per la mia salute mentale” dice tirandosi dietro le critiche di molti per cui la ragazzina dai lunghi capelli ricci che ha fatto impazzire il mondo del tennis e dello showbiz diventa in poche ore “la principessa arrogante”. Per altri “la principessa triste e annoiata” con tutta la carica polemica di questi aggettivi attribuii ad una ragazza che dalla vita ha avuto se non tutto certamente molto.
L’estate sembrava poter rimettere le cose a posto nella sua testa confusa: essere l’ultima tedofora ai Giochi di Tokyo era il giusto riconoscimento per un’atleta che già al top ha scelto di essere giapponese e non americana (in Giappone è obbligatorio scegliere a 21 anni). Dopo il primo turno vittorioso, Naomi torna felice e sorridente a sedersi davanti ai microfoni: “Penso che la pausa che mi sono presa sia stata più che necessaria. Mi sento di nuovo sollevata e felice e sono più che mai concentrata sul tennis”. Ma al terzo turno perde, tornano i cattivi pensieri e le lacrime.
La ripresa dei tornei del circuito negli Stati Uniti a Cincinnati con la morsa del Covid che si allenta e piano piano riporta il pubblico sugli spalti doveva essere un’altra occasione. Dopo il match di secondo turno, dopo aver battuto la teen Coco Gauff in rimonta, Osaka confessa di “essersi sentita un'ingrata per non aver apprezzato appieno il fatto di essere una delle atlete più forti e popolari del mondo”.
“Ho avuto un anno strano - ha detto - molti di voi sanno cosa ho passato. Mi sento come se avessi cambiato il mio modo di pensare, anche quando perdo mi sento come se avessi vinto, visto quello che succede nel mondo. Leggo le notizie di Haiti e quello che succede in Afghanistan e realizzo che anche solo svegliarsi la mattina è un successo. Dover colpire una pallina una grande fortuna”.
Era metà agosto, il terremoto aveva ucciso 1400 persone ad Haiti, dove è nato suo padre, e le ragazze di Kabul destinate al ritorno del buio del Medioevo della restaurazione talebana. Rispetto a tutto questo stare in campo e giocare e faticare per provare a vincere, non è solo un privilegio ma una grande fortuna.
Ma poi è arrivato lo Slam, che Naomi ha già vinto due volte (2018 e 2020), ed è tornato il baratro. Il match quasi vinto e invece poi perso contro la teen canadese Fernandez le ha riaperto le porte dell’inferno. “Mi prendo una pausa, sento che devo farlo, meglio così, non so quando tornerò a giocare”.
Gli appassionati di tennis ma anche gli osservatori delle cose della vita si sono già divisi tra accusa e difesa. C’è chi le contesta che in fondo sta solo cercando facili alibi alle sue sconfitte che vanno curate in campo, anche perdendo, e non scappando in nome della depressione. C’è chi la perdona perchè Osaka è stata travolta fin troppo presto dall’insolito destino del successo e della ricchezza e occorre tempo, e le persone giuste, per trovare gli strumenti e gestire tutto questo. E dunque è giusto darle quel tempo che non può essere misurato con gli orologi.
Credo però che l’affaire Osaka non possa essere derubricato e liquidato con le categorie ordinarie che si applicano all’atleta di successo che incrocia un momento buio. Osaka è bella, giovane, un tennis esplosivo, adesso anche ricca e super famosa.
E’ un personaggio iconico e mediatico, uno di quei mix che fanno impazzire i guru del marketing. Non è un caso che mensili e settimanali fanno la fila per averla in copertina e che i principali show televisivi se la contendono per averla in studio. Osaka è certamente un personaggio ma è soprattutto una grande storia con tutto il peso che le grandi storie si portano dietro.
Padre haitiano, madre giapponese, matrimonio contrastato dalla famiglia di lei, la giovane coppia lascia il Giappone e arriva a Elmont, una frazione di Long Island alla periferia del Queens, quando Naomi ha tre anni. Qui il padre Leonard, che aveva come modello Richard Williams, si improvvisa maestro di tennis delle due figlie, Naomi e Mari.
I campi sono quelli del Queens, aperti a tutti senza discriminazioni. Una famiglia di immigrati, una coppia mista e con pochi mezzi. “Giocavo a tennis solo perchè volevo che mia mamma fosse felice, smettesse di lavorare e di dormire in macchina” racconta Naomi nella docuserie di Netflix. “Quando mi sento stanca e in difficoltà mio padre mi dice sempre di ricordare che i nostri antenati stettero in nave quaranta giorni”.
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Naomi nel nome di Elijah, mascherina Black Lives Matter - Le foto
Prima di cominciare a sorridere e a godere del proprio successo, Naomi ha dovuto fare i conti con qualcosa che anche un campione in genere incontra più tardi nella vita: la responsabilità. Per la sua famiglia e per tutto quello che lei stessa può rappresentare: una storia di immigrazione, di pregiudizio, di razzismo, l’obiettivo fisso del riscatto. Un peso enorme per uno sport come il tennis dove il fattore mentale e la continuità della tenuta mentale sono fondamentali tanto quanto il dritto, il rovescio e la capacità di gioco. Già in piena crisi, qualche settimana fa, Osaka ha detto: “Guardo le notizie, il terremoto a Haiti, quello che succede a Kabul e mi rendo conto quanto io sia fortunata a dover in fondo colpire solo una pallina”.
Il problema è che tra una pallina e l’altra entrano in campo anche Haiti e Kabul. Oggi. Ieri sono state le vite spezzate di Black lives matter. Settembre 2020, eravamo nel pieno della pandemia, il circuito si era quasi fermato e il “Billie Jean King USTA National tennis center”, lo stadio che ogni anno ospita gli Us Open, aveva concentrato nei suoi campi i tornei di Cincinnati e Washington. Tribune vuote. Il primo fu Francis Tiafoe: entrò in campo con una mascherina con su scritto il nome di George Floyd, l’afroamericano di 46 anni soffocato dai poliziotti di Minneapolis mentre supplicava: “Non posso respirare”.
Il resto lo ha fatto lei, Naomi. E il tennis, da sempre restio a schierarsi in fatti e vicende con implicazioni troppo sociopolitiche, divenne il teatro di una protesta che andò in mondovisione. Osaka, che vinse quello slam, entrò in campo per ogni match con una mascherina che riportava ogni volta un nome diverso, i nome delle tante vittime della polizia Usa. “When will it ever be enough?", quando sarà abbastanza si chiedeva la allora numero 2 del mondo.
“Sono un'atleta e una donna nera. E in quanto donna nera sento che ci sono cose molto più importanti che richiedono attenzione immediata, piuttosto che guardarmi giocare a tennis” aggiunse.
Disse che le dava “nausea” assistere “al continuo genocidio dei neri da parte della polizia (…) Non mi aspetto che la mia decisione porti conseguenze drastiche o immediate - spiegò .- Ma riuscire a far emergere una maggiore consapevolezza del problema in uno sport prevalentemente bianco sarebbe già un passo nella giusta direzione”. Un discorso da attivista dei diritti civili più che da predestinata del tennis.
Ora è difficile dire quando l’impegno civile che Naomi sente così urgente e primario - quest’anno ha fatto campagna per il terremoto a Haiti - possa aver condizionato il suo già fragile equilibrio di tennista che nel giro di due anni si è ritrovata sul tetto del mondo ma anche in grado di saldare quei “debiti” con la storia, la sua comunità e la sua famiglia. E’ chiaro però che tutto questo ha avuto un peso enorme.
Dice Osaka nella serie autobiografica a lei dedicata: “Tutte le attenzioni che riceviamo hanno qualcosa di ridicolo e nessuno ti prepara per questo. Tutti poi mi conoscono per essere una giocatrice di tennis. Ma cosa sono io se non sono una top player?”. Naomi sta cercando questa risposta. Lasciamole il tempo di trovarla. Senza fretta. E senza rancore.