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Ivanisevic entra meritatamente nell'"Hall of Fame": il mancino croato tutto rischi ed ace, dopo tre finali perse, sfatò il tabù Wimbledon. Da coach ha lanciato Cilic e ha dato un’arma in più a Novak
di Vincenzo Martucci | 18 luglio 2021
Un eroe sofferto, un campione fortissimo ma umano e quindi vicino alla gente, capace di trasmettere emozioni e di spiegarle. Goran Ivanisevic è stato davvero uno di noi, ci ha fatto capire che diavolo sia il tennis e che sconquasso possa creare nella testa e nel cuore, ci ha accompagnati nei viaggi da incubo che faceva, sul campo, per trovare la soluzione fra il talento divino che possedeva e la potenza quel braccio capace di curve mancine di servizio inarrivabili, ma soprattutto fra i due io del croato dagli occhi selvaggi e spesso disperati: il Goran buono e il Goran cattivo che si parlano fra di loro e sono talmente reali, nella sua mente, che alla fine li accetta come compagni di viaggio e li interpella continuamente, ci discute, ci litiga nella tempesta di pensieri e sentimenti che alberga quel suo io tanto complesso.
Così semplice e sincero, Ivanisevic è stato il miglior compagno dei media: dava sempre uno spunto, uno slogan, una chiave di lettura alternativa e interessante da trasmettere poi agli appassionati aumentando la passione per un personaggio alternativo, imprevedibile, ribelle e insieme generoso, affascinante, buono, amorevole. E’ stato il più forte tennista della sua Croazia in una terra piena di atleti naturali, addirittura in una strada di Spalato dove sembra sia caduto il seme del talento sportivo per quanti fenomeni ha fatto germogliare a pochi metri di distanza attorno al circolo tennis più famoso. Goran, il bellissimo Goran, era nell’Olimpo dello sport, non solo nel tennis, ancor prima di entrare nell’Hall of Fame. Perché è stato molto di più dei risultati e ha comunque condito la sua impresa più bella, il trionfo a Wimbledon 2001, con tutte le sue caratteristiche e quindi con una storia che è diventata una fiaba. Con un prima, un durante e un dopo davvero strappalacrime.
Il prima del fenomeno Goran Ivanisevic è un puledro che non si tiene: da junior, perde spesso e volentieri partite già vinte, si inabissa da solo, si infuria a tal punto con se stesso che, all’Orange Bowl, lascia il campo trascinandosi fino agli spogliatoi il net che s’era impigliato nella borsa. Promette sfracelli che produce però a singhiozzo, così come mette giù più ace di tutti ma a tratti si arena anche e si ferma sul più bello. Wimbledon è il suo sogno e anche la sua maledizione. Arriva in finale tre volte e perde sotto il traguardo.
La prima nel 1992 è già leggendaria, emblematica di un personaggio così contrastato che, all’epoca, dorme in albergo sotto falso nome e di notte deve anche sloggiare in fretta per le minacce di morte che subisce dagli estremisti serbi. Quell’anno, a Wimbledon, il croato tutto attacco e rischi, infila uno dietro l’altro Ivan Lendl, Stefan Edberg e Pete Sampras. Soprattutto la semifinale contro “Pistol Pete“ fa scalpore coi 36 ace che stampa sull’erba senza fronteggiare una sola palla break. Ma poi nell’ultima sfida, nel derby fra due campioni a caccia del primo slam, contro la super-risposta del super difensore Andre Agassi, si scioglie sul più bello: nell’ultimo game del quinto set si suicida con due doppi falli dopo gli appena cinque collezionati nel match. I numeri si fanno beffa di lui: serve 37 ace in quell’unica partita quanti ne ottiene Agassi in tutto il torneo, vanificando gli addirittura 206 ace-record che invece ne può contare lui nelle sue sette partite. Fortuna che all’Olimpiade è il simbolo della Croazia che conquista l’indipendenza: è il portabandiera e la medaglia di bronzo sia in singolare che in doppio.
Ahilui: Sampras diventava l’incubo di Goran, il muro contro il quale si infrangevano tutti i suoi sforzi. Compreso quello di salire al numero 1, fermandosi al 2, inesorabilmente. Questa è la storia della seconda finale a Wimbledon, persa nel 1994 contro l’americano.
Così come le semifinali ai Championships 1995, concluse sempre contro Pete, e come nel 1996, quando cede a Sampras anche nelle semifinali degli Us Open, e ancora nel 1998, nella terza finale persa a Wimbledon, ancora con tante chances, perché manca set point per andare due set a zero e poi cede in cinque ad un avversario che, esattamente al suo opposto, sa estraniarsi completamente ed eseguire al meglio gli schemi.
Poi, come in tutte le favole più famose, il campione s’eclissa per problemi cronici alla spalla ed entra nella spirale del Goran cattivo. Nel secondo turno del torneo di Brighton del 2000, al culmine della frustrazione, dopo aver distrutto al suolo tutt’è tre le racchette che gli sono rimaste, deve ritirarsi perché non ne ha altre con cui giocare.
Il commento? “Almeno mi ricorderanno per qualcosa, diranno: 'E’ quello che non ha mai vinto Wimbledon, ma ha rotto tutte le racchette'”. Da appena numero 125 del mondo, non ha la classifica per entrare di diritto nel tabellone di Wimbledon 2001, ci arriva grazie ad una wild card, un invito degli organizzatori, malgrado perda contro Cristiano Caratti (numero 194 del mondo) al Queen’s e giochi malissimo anche a Den Bosch contro Hewitt.
La sua condizione psichica è preoccupante. L’ottimismo dei primi anni, “Ho ancora tempo di vincere questo torneo”, all’epoca del primo ko in finale del 1992, è diventato un mesto: “Quell’uomo, Pete Sampras, ha rovinato almeno vent’anni della mia vita”. Sempre in bilico fra auto-ironia ed auto-distruzione, Goran, ormai quasi vaneggiante, scopre di poter ancor vincere le partite grazie ad un terzo personaggio che appare dentro di sé, di cui parla ai media a cuore aperto, creando la storia del torneo: “Accanto al Goran buono e al Goran cattivo mi è apparso il Goran dell’emergenza, quello del 911, del cervello, che interagisce con gli altri due durante le partite, calma le cose e mi evita di andare troppo in fretta”.
Così si costruisce uno dei miracoli più inspiegabili ed affascinanti del tennis, fino all’incredibile finale vinta di lunedì, il “lunedì della gente”, perché i biglietti sono finalmente acquistabili dalla gente comune e non secondo le tradizionali trafile del Tempio. “Non ho mai capito che cosa sia successo durante il torneo, rimane un mistero, una cosa incredibile. A metà della prima settimana mi sono sentito bene, mi sono sentito speciale, c’era qualcosa di nuovo dentro di me. La gente rideva dei tre Goran, ma grazie a quelle discussioni dentro di me sono riuscito a togliermi di dosso la pressione, ho giocato di meglio in meglio, ed ero sempre più felice, in campo”.
In quell’indimenticabile lunedì Ivanisevic batte il finalista dell’anno prima, Pat Rafter, per 9-7 al quinto set, coi soliti alti e bassi, i soliti drammi. Il solito pazzo conquista il break sul 7-7 con due risposte vincenti, ma commette doppio fallo sui primi due match point: proprio così.
Goran guarda in cielo supplice, prega proprio, promette ad alta voce, Lassù, che non giocherà più a tennis se riceve la grazia di sfatare quell’angoscioso tabù. Ma anche il terzo match point si annulla con un lob dell’australiano. Poi, finalmente, sul quarto, Rafter spedisce la risposta a metà net sulla seconda di servizio spinta.
L’estasi è straordinaria: malgrado la spalla distrutta dagli sforzi e rappezzata alla bell’e meglio per due settimane, con un’operazione che l’attende subito dopo il torneo, Goran può volare nell’abbraccio con papà Srdan e col mentore Niki Pilic, può piangere sconvolto e avvincere il mondo intero con la sua felicità: “Per tutta la vita ho sognato di vincere Wimbledon e abbracciare papà in quella tribuna, volevo ballare e saltare, volevo fare chissà che. Per me questa vittoria significa tutto, così realizzo tutti i miei sogni”.
Al rientro a casa viene accolto come un eroe dalla sua Spalato e dalla Croazia tutta, con oltre 200mila persone che si riversano i strada ubriache di patriottismo. Gli resta il dubbio che, se si fosse completato come giocatore, avrebbe potuto vincere di più, per cui decide di trasmettere la sua esperienza a qualche collega.
Da coach, porta Marin Cilic a conquistare gli Us Open 2014, poi insegna a Novak Djokovic l’arte del servizio. Nel segno del terzo Goran, quello delle emergenze, del famoso 911, il numero che chiamano al telefono gli americani quando si trovano nei guai. L’unico giocatore che ha vinto Wimbledon da wild card.