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Dalle semifinali di Pietrangeli del 1960, passando per tanti tentativi più o meno credibili, dopo il convincente successo al Queen’s, Matteo si gioca le sue carte ai Championships. Partendo dalla forza che gli dà proprio l’erba…
di Vincenzo Martucci | 21 giugno 2021
Matteo Berrettini è il primo tennista italiano che può legittimamente aspirare a vincere Wimbledon? La domanda sorge spontanea dopo l’ultimo, esaltante, capitolo del Rinascimento del tennis italiano maschile.
Il primo successo azzurro al Queen’s di Londra - alla nona finale stagionale in sei mesi dei nostri rappresentanti, inclusa l’ATP Cup - non è soltanto il primo torneo “500” firmato da Matteo Berrettini, il quinto ATP in carriera del numero 9 del mondo, il secondo del 2021 e anche il secondo sull’erba dopo Stoccarda 2019, il quarto titolo stagionale dell’armata italiana e il 72 era Open, ma rappresenta un salto di qualità storico e culturale di tutto il movimento.
Perché l’erba non è la superficie-madre degli italiani, nati quasi sempre sulla terra rossa e sempre più vicini al cemento con le nuove generazioni. E il “Torneo della Regina” è un torneo nobile su questi campi, fino a pochi anni fa era anche l’unico vero banco di prova prima di Wimbledon, finché la stagione sul verde s’è allungata e i tornei su questa superficie sono aumentati.
Ogni volta che si parlava di erba, si citava la mitica semifinale di Nicola Pietrangeli contro Rod Laver nel 1960, e il colpaccio di Coppa Davis del magico 1976 di Adriano Panatta e Tonino Zugarelli che avevano superato John Lloyd e Roger Taylor a Wimbledon.
Quindi riecheggiava la grande occasione di Panatta che, nei quarti di Wimbledon 1979, aveva perso, avanti due set a uno, contro un avversario sulla carta accessibile come lo statunitense Pat Dupre.
Poi, a parte un terzo turno sempre ai Championships di Diego Nargiso nel 1988 e di Omar Camporese nel 1991, l’Italia sull’erba ricordava solo l’impresa di Laurence Tieleman, il belga di scuola Usa che avevamo scoperto all’improvviso italiano, capace di diventare addirittura il primo azzurro era Open ad arrivare in finale sull’erba proprio al Queen’s.
Una settimana dopo Davide Sanguinetti, allevato all’università Usa, con super risposta di rovescio, colpi piatti e baricentro basso, era approdato ai quarti a Wimbledon, frantumandosi contro Richard Krajicek.
Dopo di che, sul verde, c’era stato qualche lampo del “McEnroe de noartri”, il mancino Gianluca Pozzi, che nel 2000 era arrivato al quarto turno ai Championships, battuto da Byron Black.
Finché nel 2011 Andreas Seppi non aveva sfatato il tabù italico sull’erba conquistando il titolo a Eastbourne per meritarsi poi cinque volte di essere testa di serie a Wimbledon ed arrivare al quarto turno nel 2013, quando si era arreso a Juan Martin Del Potro.
Malgrado qualche acuto di Fabio Fognini (cinque volte al terzo turno), Simone Bolelli (tre) e Thomas Fabbiano (una), per gli italiani la prima settimana nel torneo-mito del tennis è rimasto comunque un baluardo invalicabile.
Poi, nel 2019, nel segno della crescita sempre più importante del movimento, c’è stato il botta e risposta fra Matteo Berrettini che s’è aggiudicato il torneo sull’erba di Stoccarda e Lorenzo Sonego che ha messo la firma italiana sull’erba di Antalya, in Turchia. Il romano s’è confermato subito con le semifinali ad Halle e gli ottavi a Wimbledon, anche se, nel Tempio, dopo i cinque durissimi set per superare Schwartzman, è naufragato contro Roger Federer negli ottavi. Deluso da se stesso, pieno di dubbi e di rammarichi.
Ma l’allievo di Vincenzo Santopadre ha reagito. E non una volta sola. Come solo i grandi sanno fare. Dopo l’infortunio d’inizio stagione agli addominali, Matteo è cresciuto ulteriormente come dicono i nomi dei giocatori coi quali ha perso in questi primi sei mesi: quattro su sei, Medvedev, Zverev, Tsitsipas e Djokovic, sono finalisti/vincitori Slam. E, sulla scia dei quarti sulla terra rossa al Roland Garros, al Queen’s ha dato una nuova prova di concretezza e solidità, compiendo un altro salto di qualità e posizionandosi al quarto posto fra i più vincenti del 2021 con l’80,6% (26-6).
Accreditato della testa di serie numero 1, ha superato con l’aiuto di due tie-break il delicato esordio del derby contro Stefano Travaglia, ha gestito con freddezza l’insidioso confronto contro un mito segnato dal tempo come Andy Murray, ha messo il bavaglio alla speranza di casa, il pericoloso Dan Evans, ha evitato lo scontro all’arma bianca con Alex De Minaur e infine ha reagito alla grande dopo il tie-break perso contro l’ennesimo giocatore brit, Cameron Norrie.
E’ evidente che, vincendo il 90% di prime di servizio in campo, a oltre i 220 all’ora come fa lui, mettendo giù 68 ace in cinque partite (19 in finale), tutto diventa più semplice su qualsiasi superficie. Ancor di più sull’erba, con la palla che schizza via ingestibile. Ma Berrettini sta dimostrando grandi progressi anche in risposta e col rovescio. E, soprattutto, sta aggiungendo varietà e personalità, armi che, più sale il livello, più diventano indispensabili. Armi che erano mancate altre volte e che si temeva che in fondo in fondo, in quel suo animo dolce non avesse.
“Ha fatto esperienza, ha aggiunto partite”, sottolinea Umberto Rianna che affianca in qualche torneo l’allievo di Santopadre nel quadro del supporto FIT ai giocatori azzurri e di una amicizia e stima che sono diventate fortissime, nel rispetto dei ruoli. “Si sta dimostrando un giocatore vero, formato, competitivo ad alto livello che dimostra riavere le competenze e non ha più dubbi di essere un top ten: ha vinto un “500” non al massimo contro un avversario solido, di livello e capace ancor di più sull’erba. Un anno fa non aveva le stesse competenze, che si fanno nell’allenamento e, soprattutto, in partita. E’ stato sfortunato con l’infortunio di gennaio in Australia, quand’era pronto, ed è dovuto ripartire. Ma ora non ha più dubbi: vale i primi 8 del mondo e raggiunge risultati da 8 del mondo”.
Ora, il romano serio e attento, che legge, ascolta e impara, “il ragazzo analitico che propone lui stesso, argomenta e si risponde”, sempre secondo le parole di Rianna, dice: “Mentre sulle altre superfici penso e gestisco, sull’erba non ho il tempo e riesco ad avere lucidità nell’istinto”.
Mentre sulle altre superfici penso e gestisco, sull’erba non ho il tempo e riesco ad avere lucidità nell’istinto.
L’istinto, il “killer istinct” che nei quarti dell’anno scorso a Roma contro Casper Ruud era sembrato non possedere e che invece evidentemente un po’ con l’esperienza e un po’ forzato dall’erba e dal dover pensare diverso sta tirando fuori.
”Questa è la superficie più stressante”, suggerisce Rianna, “in un battibaleno cambia tutto”. E i duri cominciano a giocare, e domenica al Queen’s, Berrettini Matteo, ha reagito al mini-break che gli è costato il secondo set e all’ansia che poteva sopraffarlo contro l’ultimo beniamino di casa che cercava in tutti i modi di inchiodarlo nell’angolo sinistro e togliergli il bastone del comando.
E appena ha sentito l’odore della paura di là del net ha rovesciato il 40-0 di Norrie nel break decisivo che l’ha portato a servire per il match e a prendersi il successo più grande della carriera. Perché si accompagna al ricordo di quel Boris Becker che, unico, prima di lui, nel 1985, all’esordio al Queen’s, aveva alzato la mega coppa e poi aveva stupito il mondo firmando ad appena 17 anni la storica doppietta a Wimbledon.
Rieccoci quindi davanti alla domanda iniziale: Matteo Berrettini è il primo tennista italiano che può legittimamente aspirare a vincere Wimbledon? “Può essere fra i candidati, sì, ma vincere uno Slam e soprattutto quello Slam comporta tante altre cose ancora”, frena il saggio Rianna. Che è ben contento della programmazione attuata da coach Vincenzo Santopadre, nel sano e fondamentale equilibrio fra allenamento e gara, sulla strada dei Championships del 28 giugno. Fra una settimana Matteo avrà analizzato le forti sensazioni che gli ha dato il successo al Queen’s, la nuova consapevolezza di sé, la sensazione di aver realizzato uno dei sogni più segreti che cullava da bambino. Per realizzarlo ha dovuto anche forzare se stesso e crescere tanto, e dovrà continuare, dalla reattività di testa e di piedi, dal coraggio nel tirare il rovescio, dalla varietà al servizio e dalle volée che ancora non sfrutta al massimo del potenziale di un airone alto quasi due metri. Quando mai il tennis italiano ha avuto un gigante così atletico e potente?