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Figlio di un ex pugile che l’ha allevato proprio alla “noble art”, Andrey ha vinto a Doha in finale su Moutet. Era la grande promessa del tennis russo e mondiale, ma il fisico un po' troppo fragile gli ha già presentato un paio di volte il conto.
di Vincenzo Martucci | 10 gennaio 2020
Andrey, figlio di un ex pugile che l’ha allevato proprio alla “noble art”, era infatti la grande promessa del tennis russo e mondiale. Aggiudicandosi l’Orange Bowl ad appena 14 anni e il Roland Garros a 16, era talmente prezioso per gli sponsor che Gary Swain, il manager di John McEnroe, gli si era incollato addosso come un minatore davanti a una vena d’oro del Klondike. Flessuoso come un giunco, colpiva qualsiasi palla a più non posso, contorcendosi tutto, al punto da sembrare che si dovesse spezzare a ogni colpo. Così s’è fermato spesso in bacino di carenaggio.
A 19 anni è arrivato in finale a Umago, ma a 20, quand’è arrivato al numero 31 del modo, ha saltato tre mesi di gare per una pericolosa frattura da stress alla schiena, è rientrato l’anno scorso da 68 della classifica, per poi tornare in infermeria altre sei settimane per guai al polso. Finché, ad agosto ha schiacciato Roger Federer al Masters 1000 di Cincinnati, quindi ha superato Tsitsipas e Kyrgios agli Us Open, e chiuso l’anno alla grande firmando il torneo nella sua Mosca e diventando protagonista della coppa Davis a Madrid, con quattro successi in singolare su quattro, contro Coric, Bautista Agut, Krajinovic e Pospisil.