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Campioni internazionali

Jiro Satoh, come un samurai

Due volte semifinalista a Parigi e Wimbledon, il giapponese era la grande star del tennis asiatico negli Anni '30: si suicidò nell’aprile del '34 durante il viaggio in transatlantico che portava la squadra di Davis in Gran Bretagna.

di | 19 settembre 2019

Jiro Satoh

Jiro Satoh

Se l'è portato il vento, se l'è mangiato il mare. Era il tennista asiatico più amato e conosciuto del mondo, ma preferì la morte al disonore. Così un pomeriggio di aprile del 1934, mentre il transatlantico Hakone Maru sta attraversando lo stretto di Malacca verso Penang, Jiro Satoh si chiude nella sua cabina di prima classe. Sato è la stella della nazionale giapponese diretta in Gran Bretagna per il secondo turno di Coppa Davis. Sato ha vissuto diversi mesi a Birmingham nel 1932, ha frequentato l'università e migliorato il suo inglese: gli sarebbe servito per la sua carriera. Gli piaceva molto anche andare a ballare, ricorda chi l'ha conosciuto. Ma non arriverà, il suo viaggio terminerà prima.

Jiro Satoh

La cabina della nave

Ha trasformato la cabina in un altare. Ci sono un vaso di orchidee, le foto del padre e della fidanzata, due candele e dolcetti votivi. Alle sue spalle campeggia la bandiera con il Sol Levante. Satoh non sta bene, avverte forti crampi allo stomaco. Ha cercato di convincere la squadra del suo bisogno di riposo, ha parlato anche con un medico che però ha ritenuto quei dolori di sola origine nervosa. Il console giapponese a Singapore lo spinge a giocare, una lettera della sua federazione gli chiede di continuare il viaggio. Sato riparte con la squadra, ma prima di mezzanotte è scomparso. “Sarei inutile alla nostra squadra – ha scritto in una lettera che sarà ritrovata solo alle 23 dal compagno di cabina Jiro Yamagishi – sarei solo una fonte di problemi e di preoccupazioni per tutti voi. Date il massimo per fare meglio di quel che avrei fatto io. Credo che ce la farete. Sarò in campo con voi in spirito”.

Jiro Satoh

Un gioco moderno

Figlio di una cultura che considera nobile il seppuki, il suicidio rituale dei samurai, Sato gioca un tennis moderno per l'epoca. Arriva in Europa per la prima volta nel 1931, e raggiunge la semifinale al Roland Garros e i quarti a Wimbledon, battuto sempre da Jean Borotra. Vince 13 tornei minori in Gran Bretagna, si spinge in semifinale ai Championships l'anno successivo e due mesi dopo conquista il titolo agli Us Pacific Southwest Championships in finale su Ellsworth Vines, “il servizio più veloce del West”, capace già allora di battere a quasi 210 kmh. Mentre l’Imperatore trasforma il Giappone in una potenza militare, Sato trasforma la nazionale in una potenza in Coppa Davis. È simpatico fuori dal campo, imperscrutabile quando gioca. Ama la sua patria, però, con una devozione profonda. Nel 1933 lascia gli studi in economia alla Waseda University, batte Perry al Roland Garros e torna in semifinale a Wimbledon: Wallis Meyers, giornalista che all’epoca redigeva le classifiche, lo inserisce al numero 3 del ranking mondiale.

La terza via

A Parigi, però, nel 1933 perde 9-7 1-6 4-6 6-4 7-5 l’ultimo singolare nella semifinale di Coppa Davis contro l'australiano Jack Crawford. L’Australia rimonta da 0-2, e Sato passa in un attimo da eroe a perdente. Vorrebbe lasciare tutto, vorrebbe tornare all'università. Non regge la pressione, dicono. Ma se la ragione fosse un'altra? La notte di San Silvestro del 1933 propone alla sua fidanzata, e compagna di doppio, Sanaye Okada, di sposarlo. Il matrimonio viene fissato per la primavera del 1935. Ma c’è un ostacolo, e non da poco. Sanaye è figlia unica, perciò Sato dovrebbe prendere il suo cognome per preservarlo. Ma gran parte della famiglia di Sato non è d’accordo. Il dilemma, per un uomo con il suo senso dell'onore, è una strada senza uscita: offendere la sua famiglia o rompere la promessa di matrimonio? Alternative impensabili per un uomo dei suoi principi, per un campione che ha preferito perdere la vita piuttosto che perdere il suo onore.

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