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Djokovic getta la spugna nel match con Wawrinka per il dolore alla spalla, il pubblico di Flushing Meadows s’inferocisce e lo ricopre di “buu”. Il n.1 del mondo: “Mi dispiace, è venuto per lo spettacolo ed è arrabbiato perché io non gli ho potuto dare un match completo. Il dolore è costante da tre settimane, mi fermo”
di Vincenzo Martucci | 04 settembre 2019
Novak Djokovic non ce la fa, sotto 5-7 4-6 1-2, alza bandiera bianca, si arrende alla spalla sinistra che gli dà il tormento e si ritira, lasciando via libera a Stan Wawrinka negli ottavi degli Us Open. Ma quando abbraccia fraternamente a rete l’avversario che l’aveva battuto sempre nell’ultimo Slam dell’anno nella finale del 2016, il pubblico di New York lo contesta. Non lo fischia, perché negli States i fischi equivalgono agli applausi, ma lo ricopre di “Buu”. Come, ahinoi, fa parte del pubblico di certi stadi di calcio contro i giocatori di colore.
Nole incassa, glissa, fa il sorrisetto amaro, e se ne va, afflitto: “Capisco il pubblico, mi dispiace: è venuto per lo spettacolo ed è arrabbiato perché io non gli ho potuto dare un match completo. Tanta gente non sa che cos’è successo e non puoi criticarla. Non doveva andare così, ma è andata così. Il dolore è costante da tre settimane, c’è un momento che senti di non poter più riuscire a fare un punto. Mi fermo, vorrei giocare la stagione indoor in Asia, ma chissà se potrò giocare Tokyo”.
Ma alla gente non interessa, la gente è arrabbiata con lui, lo accusa da sempre, più ancora di altri, più forte di altri, di non essere sincero. Nel caso specifico, non capisce questo suo comportamento: Novak ha pianto un infortunio alla spalla contro Londero, si è ripreso in modo apparentemente ottimale contro Kudla - che gioca pure per la bandiera a stelle e strisce - poi ha gettato la spugna.
Perché non è andato ancora avanti, perché non ha regalato un dramma in campo, con grida e sofferenza, con scambi furibondi e interventi del medico, da sangue ed arena, come un match di boxe? Perché non ha dispensato anche a questa gente le mitiche gesta degli Australian Open contro Rafa Nadal o quelle dell’ultimo Wimbledon contro Roger Federer?
Dal punto di vista della gente, il campione di gomma avrebbe potuto e dovuto fare di più per restare nel torneo. E se ne frega se, nella realtà, si è imbottito di chissà quanti antidolorifici, si è sottoposto a chissà quanti massaggi e trattamenti specifici, e ha stretto sicuramente i denti davanti al dolore. Niente da fare, nessun perdono: chi paga il biglietto per vedere il numero 1 pretende uno spettacolo da numero 1.
Eppoi, diciamolo, Djokovic è anche antipatico nelle sue reazioni così alterne, ora ha il volto tiratissimo, gli occhi fiammeggianti, gli scatti d’ira, le espressioni di scherno e di disgusto, ora è l’allegrone che regala il suo cuore a ogni lato della tribuna a fine match e ringrazia il Cielo per la salute che gli ha dato. Ed è arrogante: qualche giorno fa ha platealmente minacciato un tifoso che gli aveva chiesto in allenamento: “Ma non dovevi ritirarti?”, promettendogli che lo sarebbe andato a cercare, in privata sede, come in un duello rusticano che non gli fa onore. Ma che spiega l’enorme tensione che ha dovuto sostenere.
Quello di Flushing Meadows è il più incontrollabile e il meno tennistico dei pubblici del Grande Slam. Non solo si schiera apertamente per il beniamino del giorno e lo sostiene clamorosamente, ma può trasformarsi da eccessivamente chiassoso e incontinente, a scorretto e persino violento nei confronti dell’avversario, del “nemico” del momento, del colpevole di lesa maestà dei sacri principi yankee. Novak Djokovic è l’ultima vittima sacrificale offerta dallo show business alle voraci night session, che ricordano tanto il Far West, e tanto preoccupano i tennisti degli Us Open. Semplicemente, stavolta, il popolo di Flushing Meadows ha fatto pollice verso come al Colosseo contro il numero 1 del mondo, campione uscente e primo favorito per il bis consecutivo.
Questa gente che s’ingozza di hot dog e birra, che non rispetta il silenzio durante il gioco e tantomeno sta ferma al suo posto e trattiene urla e incoraggiamenti a chi vuole, quando vuole, diventa un tutt’uno, coagulando incredibilmente i poveri dell’ultimo anello dell’Arthur Ashe Stadium - lo stadio più grande del tennis - dove non si vede assolutamente nulla e i ricchi che pagano migliaia di dollari per guardare negli occhi gli eroi della racchetta.
Questo pubblico è lo stesso che ha contestato Naomi Osaka: la giapponese, americana a metà, che dodici mesi fa ha scippato alla star di casa Serena Williams il co-record di titoli Slam a quota 24 e adesso ha schiacciato la futura stellina Cori Gauff. E’ un pubblico partigiano, irrispettoso, terribile, feroce. Di cui Daniil Medvedev si sta nutrendo, selvaggiamente, come questo tifo.