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Campioni internazionali

Sunday Morning: gli yankee, i più duri sul duro?

Superficie, palle, clima e non solo: grazie a tutti questi fattori i giocatori americani diventano sempre insidiosi nella ‘loro’ fetta di stagione che conduce agli Us Open. Lo dice la storia (in passato in modo ancor più marcato) e lo dicono i numeri. Cerchiamo di capire perché

di | 02 agosto 2019

Con il Citi Open di Washington, oggi alla sua conclusione, la stagione sul ‘duro USA’ è entrata nel vivo. È un momento molto particolare dell'annata tennistica, per vari motivi. Dopo Wimbledon si tira un primo bilancio del 2019, e l'estate americana - con uno Slam e due Masters 1000 - per molti può essere l'ultima grande occasione di riscatto se le cose non sono andate come sperato. Da Atlanta a Winston-Salem gli eventi che conducono a Flushing Meadows formano per il sedicesimo anno le US Open Series, una sorta di mini circuito nordamericano con lauto montepremi extra per chi raggiunge i migliori risultati, altro motivo per spingere sull'acceleratore in queste cinque settimane.
I tornei si disputano con palle e campi ‘praticamente’ identici a quelli di US Open, quindi condizioni di gioco coerenti. Non è un caso che spesso siano gli stessi giocatori a ottenere buoni risultati. In realtà il bizzarro clima del nord America complica non poco le cose: si passa da giornate fresche, ventose e a volte piovose a bolle di caldo afoso con umidità al limite del sopportabile (a Cincinnati i tennisti hanno i ventilatori accanto alla sedia). La condizione fisica quindi è fondamentale, e forse non è un caso che il classico detto “quando il gioco si fa duro, i duri iniziano a giocare”, sia dilagante nello slang sportivo USA. In questo, le statistiche del gioco ci confermano che i tennisti yankee siano da sempre tra i più ‘duri’.

Crisi sì, ma in casa…

Che il tennis maschile a stelle strisce non stia attraversando un'epoca di successi è cosa nota. Ormai da oltre un lustro le vittorie importanti si contano sulle dita di una mano. Roddick è stato l'ultimo statunitense finalista in uno Slam: Wimbledon 2009. Sempre Andy l'ultimo a vincerne uno (proprio gli US Open 2003) toccando il numero 1 del ranking. Da allora, una manciata di successi in Masters 1000 e un movimento tenuto in vita da risultati sporadici. In questo quadro tutt'altro che esaltante per il colosso USA, i numeri confermano che gli statunitensi ottengono i migliori risultati in carriera proprio nei tornei di casa, tra l'estate e la primavera.

Andy Roddick, l'ultimo americano ad aver vinto gli Us Open (e Slam in generale) e a essere stato n.1 Atp

Numeri a stelle e strisce

Ecco alcuni dati statistici a supportare la teoria, senza la pretesa di analizzare ogni tennista o situazione. Focalizzando l'analisi al settore maschile, in 138 edizioni degli US Open, 85 sono state vinte da un tennista statunitense (oltre il 60%).
L’ultimo top 10 USA, John Isner, ha vinto 15 tornei in carriera; 13 di questi sono andati in scena in patria. Andy Roddick, ultimo campione a stelle e strisce, vanta 32 titoli; 22 successi sono arrivati in tornei USA.

Mardy Fish addirittura 5 successi sui 6 complessivi. Passando ai campioni dell'epoca d'oro del tennis statunitense, Andre Agassi ha chiuso la sua lunga carriera con 60 tornei vinti, 44 dei quali in Nord America. John McEnroe vanta 77 titoli, 46 di questi ottenuti negli States. Jimmy Connors, detentore del record assoluto di 109 tornei in singolare, ne ha alzati ben 75 in America. Altri ottimi giocatori come Jim Courier, Michael Chang, Brad Gilbert o Tim Mayotte hanno vinto la metà (o poco oltre) dei loro tornei in eventi di casa o in Canada.

Se a questi dati aggiungiamo anche le finali, la statistica si rafforza ulteriormente. Nell'epoca del tennis Open i numeri parlano chiaro: i tennisti americani ottengono i migliori risultati in patria. Se corriamo ancor più all'indietro, i risultati si amplificano; tuttavia è corretto ponderare il differente periodo storico. Si viaggiava di meno e molti tornei “domestici” erano di fatto monopolizzati dai giocatori di casa.

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Andre Agassi, uno degli unici 8 di sempre ad aver vinto tutte le prove del Grand Slam almeno una volta

Motivazioni e appartenenza

Come mai storicamente i tennisti statunitensi esprimono il meglio nei tornei di casa? Sarebbe riduttivo e semplicistico voler trovare un'unico fattore che spieghi una situazione molto complessa. Tra i vari elementi in gioco, di sicuro l'aspetto motivazione è tra i più importanti.

Per il tennista e sportivo a stelle e strisce l'appartenenza al suo Paese è fattore radicato. Tutto parte dal sistema scolastico di insegnamento, sportivo e umano, incluse le molte accademie. Ogni ‘buon’ yankee è molto fiero del suo Paese e giocare in casa dopo continui e lunghi viaggi all'estero dà quello sprint in più, senza aver sulle spalle una pressione esagerata a castrare la vis pugnandi.

I francesi, ad esempio, spesso giocano a Roland Garros con aspettative enormi di pubblico e stampa, finendo schiacciati dall'evento stesso. Questo non accade a Flushing Meadows, dove il variopinto pubblico newyorkese alza il volume esaltando i propri giocatori, a sua volta esaltato nel tempo dalle gesta dei vari Connors e compagnia. I media sono molto presenti, ma l'attenzione per il tennis non è paragonabile a quella delle leghe Pro. Quindi motivazioni al top, pronti a esaltarsi e dare il meglio.

L'unicità del cemento USA

Le condizioni di gioco hanno contribuito in modo decisivo ai grandi risultati in America dei tennisti USA nel recente passato; in particolare il cemento americano, su cui si disputano da molti anni quasi tutti i tornei in calendario negli States. Il fattore superficie è stato determinante fino alla recente svolta che ha uniformato i campi, colpendo soprattutto la scuola americana.
Fin dai primi anni '70 infatti il cemento americano era qualcosa di diverso dal resto del panorama tennistico internazionale. I campi dalla California alla Florida erano duri, velocissimi, ma caratterizzati da un rimbalzo piuttosto alto. Rapidi ma diversi dall'erba “vera”, dove la palla schizzava via. Un cemento con rimbalzo alto che ti portava a colpire di ritmo, perché la palla era vivace e scappava, non ti lasciava tempo di colpirla se non anticipavi. Quindi molto diverso dal rosso ‘classico’, dove nell'impatto col terreno la palla rallenta e s'impenna, consentendo tempi di gioco più ampi. Questi campi americani in cemento, assai particolari, indirizzarono la scuola statunitense su canoni tecnici ben precisi, plasmando in modo decisivo la tattica dei giocatori nati in “Merica”. I tennisti fin da giovanissimi lavoravano sull'anticipo, sul governare il rimbalzo per prendere il tempo al rivale con un gioco molto aggressivo.

Qualche colpo e via a rete, per chiudere il campo all'avversario, costretto a tirare un passante in corsa da posizione difficile. Era la tattica di un Connors, per citare un idealtipo di tennista yankee, pronto alla lotta e molto aggressivo fin dalla risposta.

Spesso nascevano tennisti dotati di una tecnica un po' “artigianale”, tesa a ottimizzare tempi di gioco rapidi, protesi verso la rete o colpi definitivi dal fondo dopo aver preso possesso dello scambio. Si crearono tennisti veloci coi piedi, per arrivare bene sulla palla, e via via sempre più potenti, incisivi con la prima di servizio e quindi anche alla risposta. Giocatori dotati di colpi piatti in anticipo se proiettati verso la rete, o con fondamentali basati sul topspin se più ancorati alla pressione dalla riga di fondo.
La scuola USA creò tennisti veloci coi piedi, via via più potenti, incisivi al servizio e anche alla risposta...
Sono i prodromi di quella che più avanti divenne la scuola di Bollettieri, la rivoluzione copernicana del modo di stare in campo. Un tipo di gioco che non sempre funzionava invece sul rosso (poca pazienza e tempi di gioco diversi) o anche sull'erba (rimbalzi bassi penalizzavano le ampie aperture del dritto ed i rovesci a due mani), ma che invece si esaltava sul cemento nordamericano.

Addio ai Mayotte & Co.

Oggi un tennista come Tim Mayotte (buon Top 10 statunitense) non esiste praticamente più. Era un giocatore dominato dall'istinto offensivo, possedeva un gran servizio con ampia varietà di effetti ed angoli. Correva a rete appena possibile seguendo l'angolo aperto ed attaccava già dalla risposta, appoggiandosi alla perfezione ai colpi del rivale e sfruttando la potenza delle sue gambe, che si piegavano magistralmente per toccare sotto rete le palle più basse.
Non una mano delicatissima (ma nemmeno malvagia), non possedeva una tecnica che gli consentiva gran potenza da fondo campo. La sua forza stava nell'istinto e nel ritmo, impatti perfetti e via avanti, a tutto rischio e spettacolo.

Era un tennista ideale proprio per il cemento americano dei suoi tempi, e oggi non nasconde critiche pungenti al mondo del tennis e soprattutto a quello del suo paese. “La nostra scuola è rimasta indietro. Mentre quella europea ed iberica in particolare si è evoluta assecondando le nuove condizioni di gioco, quella statunitense è rimasta bloccata ad un mondo che non c'è più. Il sistema delle accademie è andato in crisi perché si pensa più al profitto che al rendimento, i tecnici girano di meno pensando di sapere tutto... Inoltre non si doveva permettere di cambiare i campi, oggi troppo lenti e tutti uguali. Questo tennis ha perso molto del suo fascino, e forse gli stessi giovani americani non escono più come un tempo perché il tennis attuale richiama meno di una volta".

"Oggi - prosegue - il modello sono NBA ed NFL. Inoltre il calendario offre meno tornei negli States e questo ha contribuito non poco a peggiorare la nostra situazione, i giovani fanno più fatica ad emergere".

Tim Mayotte, ex Top 10 statunitense, aveva un gran servizio con ampia varietà di effetti e angoli

"Abbiamo perso la nostra differenza - sintetizza in poche parole -, il peso del tennis americano è crollato rispetto al passato, come valore tecnico ed economico”. Parole secche, assai critiche, ma anche sensate. In effetti oggi nel calendario ATP i tornei in nord America sono 12 tornei su 67; nel 2000 erano 16 su 71; nel 1985 22 su 73 e nel lontano 1975 (anche grazie al circuito WCT) addirittura 49 su 104.

L’uniformità ha penalizzato gli yankee?

Andre Agassi, sollecitato sui problemi del tennis americano, ha sottolineato come il tennis sia diventato sempre più globale, quindi complicato; ma che altre scuole, come quella iberica o dell'est Europa, sono state più pronte ad assecondare i cambiamenti nel gioco, adattando la tecnica – e la preparazione fisica - delle nuove leve alle nuove condizioni.

È evidente che sul cemento attuale, piuttosto lento, con rimbalzo alto e tempi di gioco meno rapidi, gli “ex” terraioli vanno a nozze, a differenza di giocatori meno potenti e più spostati sull'anticipo, come i classici yankee.

Sul cemento attuale, piuttosto lento, con rimbalzo alto e tempi di gioco meno rapidi, gli ex-terraioli vanno a nozze, gli americani no
Dai primi anni del nuovo secolo, anche per venire incontro alle richieste dei giocatori, le condizioni di gioco sul tour ATP sono state uniformate. Forse fin troppo, tanto da aver omologato gran parte dell'annata tennistica, con campi discretamente lenti e palle pesanti. Il cemento americano veloce è praticamente scomparso, e questo probabilmente ha messo in crisi gran parte della scuola tecnica americana, pensionando quello stile di gioco aggressivo, a tratti spregiudicato, che creava grande spettacolo e personaggi interessanti. Di pari passo la grandeur yankee è scomparsa, con pochi tennisti capaci di imporre la propria differenza. Sarà solo un caso.
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