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Campioni internazionali

Una settimana da dio

Il 26 luglio di vent'anni fa, Pat Rafter diventava numero 1 del mondo. Resterà in testa alla classifica per una sola settimana: nessuno, uomo o donna, lo è stato per un periodo così breve

di | 26 luglio 2019

Rafter

"E' strano che Pat Rafter abbia scelto il tennis, uno sport noto perché alimenta l'egocentrismo". Stephanie Merritt, che l'ha intervistato per il Guardian nel 2001, testimonia uno stupore diffuso. Perché il contrasto tra la persona e le qualità che servono per diventare campioni difficilmente si è palesato in modo più radicale. Eppure, il 26 luglio del 1999, iniziava la sua unica settimana da numero 1 del mondo. Era il primo australiano a salire in vetta alla classifica dal 1971. Sarà l'unico, uomo o donna che sia, a restarci per un tempo così breve. Carlos Moya, infatti, è rimasto in testa due settimane (a marzo del 1999) come Evonne Goolagong ad aprile del 1976. Anche se la WTA gliele riconoscerà solo nel 2007.

 

 

Settimo di nove figli, ha iniziato la stagione 1999 con il titolo in doppio all'Australian Open, il suo unico successo nello Slam di casa. Giocava con Jonas Bjorkman, hanno sconfitto in finale Leander Paes e Mahesh Bhupathi, all’epoca ancora amici.

Ma l’Australia è stata e rimane fiera del suo gentleman, simbolo e poi capitano della squadra di Davis. Gli sport di squadra gli sono sempre piaciuti. "In Australi, da ragazzi, ne vediamo e ne giochiamo tanti: cricket, rugby, football australiano. Mi piace poter dare o ricevere una pacca sulla spalla da un compagno e pensare che ci stiamo aiutando a vicenda. Per questo mi piace così tanto la Davis" diceva all'Observer. I risultati si vedono. Ha vinto 18 singolari su 28. Senza di lui, l'Australia non l'avrebbe vinta in quel 1999. Nei quarti contro gli Usa al Longwood Cricket Club di Boston, dove si giocò il primo incontro di Coppa Davis della storia, Rafter domina Jim Courier poi rimonta due set a Todd Martin che ha anche un break di vantaggio al quinto. Non c'è però nella finale contro la Francia. i Bleus restano nella sua storia. Nel 2001, nella prima giornata della finale, batte in tre set Sebastien Grosjean. E' suo ultimo incontro di singolare in carriera.

Settimo di nove figli, da piccolo non fa niente da solo. "Se andavamo in spiaggia, non entravo in mare finché qualcuno dei miei fratelli non venivano con me, e anche col tennis ho iniziato seguendo i miei fratelli più grandi”. 

 

New York, New York

Ma il tennis è fortezza della solitudine. Lo capisce a New York, nel 1997. Rafter ascolta Ben Harper poi entra in scena nello stadio più grande del mondo, l'Arthur Ashe di New York, e vince lo Us Open. Nessun australiano aveva più messo il suo nome nell'albo d'oro dopo John Newcombe nel 1973. In finale ha sconfitto Greg Rusedski, che ha la gola infiammata e parla con voce arrochita alla cerimonia di premiazione. L'atmosfera di festa è un po' rovinata dall'immagine della cerimonia funebre per la principessa Diana di 24 ore prima. Rafter, , raggiante, festeggia con il fratello Geoff, il suo primo coach.

Un anno dopo esce al secondo turno al Roland Garros contro Jason Stoltenberg. E' il punto più basso della carriera. A New York rischia eccome all'esordio. Va sotto di due set e di un break contro Hitcham Arazi, mancino marocchino che in campo dipinge. Sta per diventare il primo campione dello Us Open battuto al primo turno l’anno successivo. Ma il gentiluomo sa come si combatte, anche se con stile. Si rialza, rimonta e non si ferma. Batte in semifinale Pete Sampras, che ha un problema muscolare alla coscia sinistra. La finale contro Mark Philippoussis, per la prima volta così avanti in uno Slam è la prima tutta Aussie allo Us Open dal 1970, quando Ken Rosewell sconfisse Tony Roche.

I suoi rapporti con Scud, però, i rapporti non sono sereni. L'anno prima, Mark l’aveva invitato ad allenarsi, ma ha poi ritirato la proposta dopo il successo di Rafter a New York. Ha poi riacceso la polemica poche settimane prima della finale. Annuncia infatti di rinunciare alla convocazione in Davis contro lo Zimbabwe perché secondo lui John Newcombe e Tony Roche non l’avevano sostenuto abbastanza quando il padre si era ammalato di cancro. 

Philippoussis vorrebbe diventare il secondo giocatore non testa di serie a trionfare a Flushing Meadows dopo Andre Agassi nel 1994, ma in finale vince solo un set. Nel commento di Scud c'è tutta l'inevitabilità del risultato di una partita con più qualità che incertezza sul risultato. “Ma vi rendete conto? Ha fatto solo 5 errori nell’intera finale. Da Wimbledon ha perso solo 2 match (su 27), sta giocando da n. 1”.

Passione senza ossessione

Nel suo tennis c'è il suo modo di vedere il mondo, c'è la vita e c'è l'amore. Una passione per lo sport e la competizione che non diventa ossessione per la vittoria a ogni costo. Nel suo orizzonte il tennis resta la più importante delle cose meno importanti. E non c'è distacco nemmeno quando per due volte si presenta sul Centrale di Wimbledon per giocarsi il titolo ai Championships. "In Australia c'erano tanti campi in erba, ora li trovi solo nei club più esclusivi" raccontava nel 2001, "anche per questo Wimbledon è sempre stato il torneo che tutti avrebbero voluto vincere".

Nel 2000 Rafter, primo australiano in finale ai Championships dopo 13 anni, avverte che la storia ha in mente altri piani. Vince il primo set al tiebreak e va 4-1 in quello del secondo. Non sarà più così vicino al titolo per tutto il match. Pete Sampras non perde mai il servizio in finale, ha subito solo tre break nelle sette finali a Wimbledon giocate fino a quel momento. Dopo il servizio vincente che chiude la finale, cade in ginocchio e piange lacrime di gioia per il suo 13mo Slam: superato  il record di Roy Emerson. Lo celebra con il commosso abbraccio a papà Sam e mamma Gloria, a Wimbledon per la prima volta.

 

Wimbledon, l'illusione e la storia

Nel 2001 supera Agassi in semifinale e torna in finale. Si gioca di lunedì, come non succedeva dal 1922  Il pubblico è il più insolito che la cattedrale del tennis abbia mai visto: a due ore dalla partita ci sono diecimila biglietti disponibili e lo stadio si riempie di giovani. C’è anche la nazionale australiana di cricket: hanno provato a cantare l’inno nazionale a cappella, sarà il loro modo di festeggiare se  dovesse vincere Pat Rafter. Ma anche stavolta la storia ha tracciato il suo percorso. Goran Ivanisevic, alla 14ma partecipazione ai Championships, è stato fermo un anno e mezzo per un infortunio alla spalla ed è entrato in tabellone solo grazie a una wild card. La finale si spinge al quinto set che a quel punto è più lungo nella storia del torneo (poi arriveranno il 16-14 della finale 2009 tra Federer e Roddick e il 70-68 fra Isner e Mahut). Il break al penultimo game segna l'inizio di un finale da thriller. Nell'ultimo game Ivanisevic piange, bacia la palla, arriva al match point ma si inceppa: due doppi falli di fila. Ma l'ace numero 213 del torneo (battuto il suo record del 1992), lo proietta al quarto match point. Quello buono. Prima esterna, risposta in rete. Ivanisevic, numero 125, è il più basso classificato e l’unica wild card nell’albo d’oro dei Championships.

Finale Wimbledon 2001

C'è un momento, però, che racconta cosa volesse dire essere Pat Rafter. E non significa solo essere il campione che insegue il ritmo della vittoria, "quella sensazione che provi quando senti di aver dimenticato come perdere". E' sotto di due set, nella sfida di Coppa Davis contro il francese Cedric Pioline del febbraio 1997. Capitan Newcombe, che gli scriverà un anno dopo una lettera decisiva per tirarlo fuori dalla crisi dopo il Roland Garros, lo incita, lo sprona, lo carica. "Prepare for a war of attrition" gli dice, "preparati a una guerra di logoramento". Rafter fa un distratto cenno di sì con la testa, rimonta e vince. Ma dopo la partita va da Newcombe, ha una confessione da fargli: "Io, logoramento non so proprio cosa voglia dire". Numero uno.

 

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