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Campioni internazionali

Richmond, un viale per Arthur Ashe

Nella sua città natale, intitolato un viale al primo campione nero di Wimbledon nella storia del tennis maschile. La proposta era stata bocciata due volte. Un gesto fortemente simbolico: Richmond è l'antica capitale della Confederazione schiavista all'epoca della guerra civile

di | 25 giugno 2019

Arthur Ashe Boulevard

Missione compiuta. Dopo anni di tentativi andati a vuoto Richmond, in Virginia, ha dedicato una strada al suo tennista, al suo sportivo, più celebre: Arthur Ashe, primo e finora unico campione di colore nel singolare maschile all'Australian Open, a Wimbledon e allo Us Open.

 

L'Arthur Ashe Boulevard, prima noto semplicemente come Boulevard, ha un'evidente forza simbolica. A una delle estremità del viale, lungo 3.9 chilometri e modellato sulle grandi strade che punteggiavano le capitali europee di inizio Novecento, c'è infatti il Byrd Park dove Ashe, da piccolo, non veniva ammesso.

A Richmond, dove era nato il 10 luglio 1943 (lo stesso giorno dello sbarco in Sicilia del generale Patton), Ashe è sempre stato consapevole delle differenze, delle barriere, della linea bianca disegnata sugli autobus per dividere i posti per bianchi da quelli per neri, confinati in fondo. Quando ha cominciato a giocare, in gran parte dei club e dei circoli di tennis i neri potevano entrare solo come giardinieri o camerieri.

 

Durante la guerra civile americana, fino al 1865, Richmond era sta scelta come capitale della Confederazione schiavista degli Stati del sud. Quella storia non è stata ancora dimenticata.
Monument Avenue, che incrocia l'Arthur Ashe Boulevard, è scandita dalle statue in pietra o in bronzo molti dei combattenti che hanno provato a fare la storia dalla parte rivelatasi sbagliata, come il generale “Stonewall” Jackson.
Anche Ashe ne ha una, quasi a rinforzare il ricordo delle due anime della città all'epoca delle leggi Jim Crow che contribuivano a sistematizzare la segregazione razziale dietro il principio del “separati ma uguali”.

 

Come ha scritto sul New York Times Kurt Streeter, primo capitano nero della squadra maschile di tennis dell'università di Berkeley, “l'Arthur Ashe Boulevard attraverserà un viale di fantasmi, non tutti amichevoli. In questo tempo in cui la nostra nazione è a un bivio, a questo incrocio il passato sordido, colpevole, divisivo incontra una visione inclusiva del futuro. E simbolicamente ci porrà di fronte alla domanda: da che parte stiamo andando?”.

 

Suo nipote David Harris Junior ha iniziato nel 1993, dopo la sua morte, a spingere la città di Richmond dalla parte di Ashe. Ma due volte la proposta di intitolargli il Boulevard era stata respinta in passato. Cambiare il nome del viale sarebbe stato troppo costoso. Perfino il sindaco nero della città aveva invitato a trovare un'altra strada da dedicargli, in un'altra zona.

 

Ma non si può semplicemente spostare il problema se si vuole davvero creare una comunità inclusiva. È la lezione di Ashe, vicino alle posizioni di Martin Luther King nell'America del boicottaggio degli autobus a Montgomery, in cui il rettore dell'Università del Mississippi schierò la polizia per impedire allo studente nero James Meredith di iscriversi.
Lontano dalle tentazioni separatiste della Nation of Islam e di Malcom X, Ashe ha vinto il primo Us Open della storia poco prima che Tommie Smith e John Carlos alzassero due pugni guantati di nero nel cielo di Città del Messico. alle Olimpiadi del 1968. Quella manifestazione di orgoglio identitario è un punto centrale anche per la vita e la carriera di Arthur Ashe, in quanto costituisce il culmine della cosiddetta Rivolta dell’Atleta Nero, che racchiude in sé il senso delle sue due principali battaglie: la lotta contro il razzismo e l'impegno perché ai neri negli Usa fosse garantita un'istruzione universitaria di primo livello.

 

Ashe, primo nero a giocare nel Sudafrica dell'apartheid nel 1973, presidente dell'ATP nel 1974, vincitore a Wimbledon nel 1975 contro Jimmy Connors, in quello che è stato definito il più grande trionfo dell'intelligenza sulla forza nella storia del gioco, non ha smesso di lottare per la libertà. Affetto da AIDS, ha combattuto fino all'ultimo per sensibilizzare sulla “peste del 2000” e in favore di Haiti, la nazione su cui più di tutte ha pesato lo stigma sociale della malattia.

 

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Nemmeno la malattia, diceva, è un peso più grande dell'essere nero. Per questo, ha fatto dei successi sportivi una piattaforma per promuovere una visione diversa del mondo.
Aveva bisogno di vincere perché, diceva, “nessuno sta a sentire i perdenti”. Ma non ha mai desiderato che l'essenza del suo passaggio nel mondo fosse limitato alla capacità di colpire bene una pallina con una racchetta di legno.
“Quello che guadagniamo ci fa vivere, ma è quello che diamo a definire chi siamo” diceva. Per questo l'ex sindaco Tim Kaine, oggi senatore, ha parlato della scelta di intitolargli il boulevard come di “un atto di guarigione”. Il ricordo di un campione che ha lottato per costruire un mondo in cui valesse la pena trovare un posto.

 

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