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Come riscrivere la storia del tennis australiano, partendo da Laver e dalla terra di Parigi…
di Vincenzo Martucci | 07 giugno 2019
Ashleigh Barthy si stropiccia gli occhi incredula: contro l’ultima bambina-prodigio Amanda Anisimova, ha perso il primo set da 5-0 e due set point del 6-0, ed ha vinto il secondo da 0-3, tre anni fa era riapparsa nel tennis come numero 623 della classifica Wta dopo la parentesi di due anni nel cricket per le troppe delusioni da singolarista, e invece lunedì salirà dall’8 alle “top 5”, al numero 3 che potrebbe essere anche 2 del mondo, vincendo il torneo. Che poi sarebbe appena il quinto della carriera, dopo Kuala Lumpur 2017, Nottingham e Zhuhai 2018, e Miami 2019. Con quel braccio d’oro, la varietà, il rovescio a una mano, il servizio, lo slice e la capacità di leggere la partita in uno scenario di attrici molto meccaniche e monocordi, era possibile che diventasse presto protagonista, a dispetto della modesta statura (1.66). Nell’attuale vuoto di potere al vertice, poteva anche aspirare a uno Slam, ma era più probabile sull’erba, magari sul cemento, pochi avrebbero previsto che si sarebbe fatta un nome sulla terra rossa.