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C'è stato un periodo - anni 80 e 90 del secolo scorso - in cui delle racchette britanniche si parlava solamente in questa stagione di mezzo, quella breve parentesi erbivora che permetteva ai sudditi di Sua Maestà di sentirsi nuovamente parte di quello splendido gioco che si vantavano di avere inventato
di Cristian Sonzogni | 19 giugno 2024
Non ci sono più gli inglesi di un tempo. Per fortuna, direbbero loro, parlando di tennis. C'è stato un (lungo) periodo in cui delle racchette britanniche si parlava solamente in questa stagione di mezzo, quella breve parentesi erbivora che permetteva ai sudditi di Sua Maestà di sentirsi nuovamente parte di quello splendido gioco che si vantavano di avere inventato.
Parliamo degli anni 80 e 90 del secolo scorso, con gli Andy Murray e i Jack Draper di là da venire e con un movimento che attendeva a breve l'arrivo di un primo salvatore della patria: Timothy Henry Henman, detto Tim. Prima di tutti loro, il vuoto. O quasi.
Uno dei più noti era Jeremy Bates, classe 1962 e coach affermato nel post-carriera. Ovviamente, seguace del serve&volley, come tutti – ma proprio tutti – i britannici della sua epoca. Raggiunse gli ottavi a Wimbledon due volte, nel 1992 e nel 1994, con il francese Guy Forget come ostacolo insormontabile. Ed è inutile dire che negli altri Slam ha fatto peggio: se è arrivato a quota 54 Atp in singolare lo deve proprio alla stagione sui prati. Bates, tuttavia, era tra i più forti del gruppo e tutto sommato era un'eccezione. Perché sì, amava l'erba e lì trovava il suo bottino di punti per restare a galla nel circuito, ma in fondo anche altrove sapeva come giocare. Altri connazionali, invece, erano decisamente più monotematici.
Come Nick Brown, stessa generazione di Bates, mai un turno passato a Wimbledon fino al 1991. Alle soglie dei 30 anni, il torneo da ricordare, con la (consueta, generosa) wild card messa a disposizione e in quell'occasione fatta fruttare con un terzo turno che è valso una carriera di attesa. Un terzo turno con vittoria su uno che, una decina d'anni più tardi, il trofeo dei Championships lo avrebbe sollevato: Goran Ivanisevic. Un capitolo a parte merita Andrew Foster, numero 184 come best ranking, che gli Slam in tabellone li ha giocati solo a Wimbledon, dal 1992 al 1996. Con gli ottavi di finale del 1993 come premio alla dedizione: lo svedese Enqvist scalpo importante all'esordio, poi il ritiro del russo Andrei Olhovskiy e Pete Sampras come chiusura dell'avventura. Anche in questo caso, una settimana che vale una carriera.
Un po' meglio, e non solo sull'erba, è andata la vita sportiva di Mark Petchey, classe 1970, terzo turno ai Championships nel 1997 e il numero 80 come best ranking Atp. Ma per far capire la situazione – questo era uno dei migliori – il buon Mark giocò per 11 volte a Wimbledon e in sole altre tre occasioni nei Major sulle altre superfici, due volte a New York e una a Melbourne. Bilancio: una vittoria e tre sconfitte. Tra coloro che hanno vissuto una settimana da Dio (si fa per dire) in quel di Londra, meritano una citazione pure Danny Sapsford (terzo turno nel 1999) e Andrew Richardson (terzo turno pure lui, nel 1997). Mentre ci ha provato sul serio Chris Wilkinson, quattro volte a un passo dagli ottavi di finale e sempre frenato sul più bello, da Stefan Edberg, Michael Joyce e Wayne Ferreira (due volte).
La storia più intrigante e più assurda, tuttavia, la può raccontare Chris Bailey, classe 1968, numero 126 Atp nel suo momento migliore. Negli anni in cui il tennis britannico era confinato alle wild card per Wimbledon – siamo nel 1993 – lui per un giorno fece sognare i connazionali di aver trovato, se non un campione, almeno un giocatore di alto livello. Dopo aver battuto Pat McEnroe, si ritrovò di fronte Goran Ivanisevic, sempre lui, quello che due anni prima aveva reso felice Nick Brown. Solo che stavolta sarebbe andata diversamente. Chris, coraggio e serve&volley applicati come il vangelo, trascina il croato al quinto set e ne esce un dramma sportivo degno di un libro. Sul 6-5 del parziale decisivo, arriva il match-point per il padrone di casa, con Goran al servizio. Errore sulla prima, si gioca la seconda: nastro. Si ripete. Il croato alza la palla e mette a terra un ace di seconda. Poco dopo vincerà la partita per 9-7, dopo 3 ore e 34 minuti condite da una certa dose di follia. L'anno dopo, il buon Chris si sarebbe ritirato dal circuito, a 26 anni.
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