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Spagna, terra di coach. Grazie al coraggio di cambiare

Se la questione della collaborazione tra coach spagnolo e atleta italiano è tornata di moda grazie alla strana coppia Roig-Berrettini, in realtà gli allenatori iberici non sono mai usciti dai radar del circuito mondiale. Restando spesso – ma non sempre – accanto ai connazionali

22 dicembre 2023

Rafael Nadal con il coach Carlos Moya

Rafael Nadal con il coach Carlos Moya

Francisco Roig, Juan Carlos Ferrero, Carlos Moya, Fernando Vicente, Galo Blanco, Alex Corretja, Pere Riba, David Ferrer e via dicendo. Domanda semplice, cosa hanno in comune? Sono tutti spagnoli e sono tutti coach di alto livello, mestiere imparato quasi sempre dopo (o durante) una carriera da professionisti di valore. Non sono più i tempi in cui gli azzurri (e non solamente loro) dovevano cercare in Spagna le accademie per diventare pro. Al contrario, oggi sono gli spagnoli a venire a sbirciare in casa Italia per vedere di imparare qualcosa.

Resta però, e questa è una costante, la capacità degli ex giocatori iberici di costruirsi una seconda carriera in panchina. Gli esempi sono tantissimi, in passato. E coinvolgono appunto anche gli azzurri. Basta pensare alla coppia Pennetta-Fognini, con Flavia che si è affidata a Salvador Navarro (157 Atp nel 2003) per vincere uno Slam (peraltro dopo aver trascorso tanti anni a fianco di un altro spagnolo, Gabriel Urpi, best ranking 106) e Fabio che si è allenato per un periodo con José Perlas. Mentre l'altra azzurra Sara Errani ha vissuto i suoi momenti migliori con Pablo Lozano, spagnolo pure lui.

Se la questione della collaborazione tra coach spagnolo e atleta italiano è tornata di moda grazie alla strana coppia Roig-Berrettini, in realtà gli allenatori iberici non sono mai usciti dai radar del circuito mondiale. Restando spesso – ma non sempre – accanto ai connazionali. Insieme a Roig (ex 60 Atp in singolare, 23 in doppio), con Rafael Nadal ha vinto tanto anche Carlos Moya, giunto nel momento ideale in una posizione piuttosto scomoda, quella che per quasi tutta la carriera del maiorchino era stata di zio Toni. Ossia l'inventore del fenomeno Nadal.

Moya è stato uno dei primi spagnoli buoni per ogni stagione, dopo l'ondata di terraioli che dominò la superficie della fatica tra gli anni Ottanta e Novanta (Bruguera, Berasategui e compagnia). Carlos fu capace di costruirsi un tennis a tutto campo, in grado di portargli punti ovunque. Non è un caso che sia diventato numero 1 al mondo, non è un caso che sia giunto in finale in Australia e in semi agli Us Open, accanto all'unico trionfo Slam che si prese comunque sul rosso di Parigi. 

Lo stesso discorso si può fare per Juan Carlos Ferrero, oggi a fianco del fenomeno Alcaraz. Pure lui capace di approdare al numero 1, JCF vinse sì al Roland Garros (nel 2003) ma fece pure semifinale a Melbourne, quarti a Wimbledon e finale a New York. Del resto già all'epoca arrivare in vetta solo con la terra era impresa pressoché impossibile. Chi aveva ambizioni di numero 1 doveva per forza costruirsi un tennis a tutto campo.

Ecco qui, forse, il segreto. La costruzione di quei giocatori passò necessariamente da un grande lavoro di cambiamento. Prima nella mentalità, poi nell'attitudine e nella tecnica. Il servizio non era più solamente una rimessa in gioco, ma un'occasione per fare il punto. La risposta non si doveva solamente tenere in campo, ma si poteva giocare per ottenere direttamente il 'quindici'. E pure la rete, quasi sconosciuta a Bruguera e soci, era diventata – se non luogo dove sentirsi a proprio agio – almeno qualcosa di avvicinabile con una certa frequenza.

Anche coloro che non riuscirono ad arrivare così in alto beneficiarono di quel cambiamento radicale nel tennis iberico. Tra loro, Galo Blanco, ex numero 40 Atp e all'angolo di Karen Khachanov per un periodo significativo. E Fernando Vicente, che ha preso per mano un Andrey Rublev ancora adolescente e immaturo fino a portarlo a diventare un top 10 stabile. Vicente, 29 al mondo nel giugno del 2000, da giocatore è rimasto agganciato più all'idea dello spagnolo da terra che non a quello 'evoluto'. Eppure, da coach, si è distinto subito per la capacità di adattarsi, lavorando con un atleta – Rublev appunto – lontano anni luce dalle sue caratteristiche.

 

Un altro fattore che ha favorito la nascita di tanti coach iberici è certamente il fenomeno delle accademie. Pensiamo a quella fondata da Emilio Sanchez e Sergio Casal, pensiamo a quelle di Ferrero e di Nadal. Mentre nel resto d'Europa si lavorava ancora a compartimenti stagni dentro ai club, la Spagna fu tra i primi Paesi al mondo a credere nell'utilità di aggregare giocatori di livello per permettere di trainarsi a vicenda. Non solo: tutti questi ex pro sono anche delle specie di psicologi: hanno tutti – chi più chi meno – un carattere fermo ma capace di adeguarsi alle situazioni. Non è un caso che Vicente e Rublev siano diventati pure ottimi amici, così come Ferrero e Alcaraz. Non è un caso che Coco Gauff, dopo essersi allontanata, abbia deciso di tornare con Pere Riba per ritrovare serenità e successi.

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