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Tiafoe e Fritz che si sfidano nelle semifinali di New York guidano il gruppo di talenti yankees annunciati con anche Paul, Opelka e Shelton
di Vincenzo Martucci | 05 settembre 2024
I ragazzi, forse, stanno davvero crescendo. A 26 anni, hanno trovato la quadra, l’equilibrio. Sanno chi sono e ragionano in base a quel che hanno, non a quello che vorrebbero essere. Insomma, dopo un lungo viaggio cominciato per entrambe nel mondo del tennis professionistico nel 2015 si sono capiti e si sono accettati, Taylor Fritz e Francese Tiafoe che hanno appena scritto la storia del tennis yankee riproponendo due statunitensi uno contro l’altro in semifinale agli US Open dal 2005, e quindi assicurando un finalista Slam di casa che mancava da Andy Roddick a Wimbledon 2009.
INTANTO AMICI
Big Toe, che approfitta del ritiro dei Dimitrov torna in semifinale dopo la magica volata del 2022: “Io, Taylor, Tommy (Paul), Reilly (Opelka), ne parliamo da anni, questo è il gruppo, questo è il gruppo. Fra noi ne parliamo apertamente. Abbiamo bussato tutti alla porta. Taylor è entrato e uscito dalla top 10. Io stesso ci sono stato, in questo periodo l'anno scorso. Tommy ha bussato alla porta dei quarti, giocando alla grande. Ben (Shelton) è così... è solo questione di tempo. Ti metti nelle posizioni, è solo questione di tempo e la partita è aperta. Non è più come una volta quando arrivi ai quarti, affronti Rafa e guardi i voli di ritorno a casa. Adesso è totalmente diverso: nessuno è imbattibile. Soprattutto più avanti nella stagione, quando la gente forse un po’ cotta, comunque non è così fresca ed è vulnerabile. Ed è piuttosto eccitante”.
Le qualità fisiche e tecniche del gruppetto di ragazzi statunitensi sono evidenti da tempo, ma ognuno di loro ha dovuto lavorare a fondo per affinarle e migliorare gli altrettanto evidenti punti deboli. Ma soprattutto ha dovuto incassare i suoi bravi schiaffi. Frances, ad esempio, già nel 2019 arrivava ai quarti degli Australian Open, ma poi tornava così lontano negli Slam solo a New York due anni, ma per riproporsi alla massima ribalta ci ha impiegato altri due anni.
Perché, sensibile, com’è ci ha impiegato quasi un anno per riprendersi dalla batosta degli ultimi US Open, quand’aveva perso nei quarti contro Ben Shelton, che considera un fratello minore, ma che ai suoi occhi gli poteva togliere la corona di più amato dal pubblico di casa e, soprattutto, di quello di colore. “Mi sono ripreso solo a Wimbledon, uno dei posti fuori dagli States dopo più mi piace giocare insieme al Queen’s, per via dell’erba”. Perché Frances si esalta davanti alla sua gente e nessuna gente è come quella di New York. Dove si gioca la sua fiche contro Fritz, col quale ha perso 6 volte su 7: “L’Ashe è diverso, non c’è niente che puoi paragonare con questo stadio: c’è una bella differenza fra i quarti nel '500' di Acapulco e la semifinale sull’Ashe per andare in finale, speriamo di notte".
UMILTA’
Tiafoe è un passionale che quando si accende entra in trance agonistica e può diventare ingiocabile, viceversa, quando s’abbatte, s’estranea ed evapora. Ma dalle recentissime semifinali di Washington (ko con Korda) e Cincinnati (battuto da Sinner), e soprattutto a New York, sta esibendo nuove qualità anche in risposta, anche nella gestione delle situazioni, senza forzare inutilmente e autodeludersi negli errori. Capace di accettare le situazioni. “Anche la evoluzione di Taylor (Fritz). Sinceramente quando ci siamo visti la prima volta, a 12-13 anni, e giocava molto meno di noi, giusto un paio di volte la settimana, perché andava a scuola regolarmente, non avrei mai pensato che potesse lavorare così tanto sul fisico”. Capace di sfruttare la leva della rivalità interna: “Ci siamo sempre spinti l’un l’altro, e siamo migliorati continuamente per non rimanere indietro”. Con l’dea che 3 titoli ATP, la classifica record di 10 e le semifinali solo nello Slam di New York, abbiano bisogno di un ritocco.
FIGLIO DI PAPA’
Se Tiafoe ha sofferto il doppio per le umili origini papà emigrato della Sierra Leone e custode del campo da tennis, Taylor Fritz s’è portato dietro l’etichetta di ricco californiano con il Dna dello sport in famiglia, e anche di grande promessa junior che però da pro non ha di certo ricalcato le gesta del mitico vicino di casa, Pete Sampras. Ha vinto di più (8 titoli), è salito più in alto in classifica (5) rispetto a Frances, ed ha avuto anche un’educazione universitaria. Ma pure le sue batoste sono state superiori. Memorabile quella contro Djokovic nei quarti degli Australian Open da due set a zero contro un Novak che sembrava in sua balìa.
Sembrava quasi che avesse paura di farsi male, andando oltre il limite della fatica, o di scoprire che non poteva proprio fare di più. Ma ha insistito, ha lavorato tanto sui punti deboli, in difesa, negli spostamenti, nella varietà, su stesso: “Sono sempre stato felice per i successi degli altri ragazzi, il nostro gruppo, tifavo per loro. Era anche un modo per difendere il mio amor proprio: ogni volta che arrivavo ai quarti Slam giocavo sempre con Djokovic o con Rafa, poi ho perso con Musetti e mi sono detto: 'Quella scusa non funziona più, è il caso di allenarmi di più'”. Così fra Wimbledon e US Open ha pareggiato i conti nei testa a testa contro Sasha Zverev autopromuovendosi alla prima semifinale Slam.