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Il corrispondente di SuperTennis ha seguito la semifinale con il team di Berrettini. Il racconto delle emozioni vissute da un punto di vista unico
di Dario Castaldo, da Melbourne | 28 gennaio 2022
È finita con le lacrime di Nadal in campo e quelle dei fan di Berrettini dietro le quinte. Dopo Flushing Meadows, anche a Melbourne Park il Minotauro ha fermato Teseo ad un passo dalla finale Slam. Se a New York gli aveva strappato il primo tie-break, che Matteo avrebbe meritato, in Australia gli ha negato il finale thrilling del quinto set, la conclusione più giusta dell’action movie andato in onda sulla Rod Laver arena. Un film del quale ho osservato da vicino solo il secondo tempo.
A Matteo mi lega un affetto a volte incompatibile col mestiere di reporter e sempre incompatibile con la gestione delle emozioni durante i suoi incontri. “Dov’eri seduto? Perché non eri col team?” mi ha chiesto più volte. Ho sempre blaterato qualcosa, una zuppa che include la deontologia professionale e il rispetto dei ruoli, la cabala e il collasso cardiocircolatorio che rischio ogni volta. Berretto ha capito che il quarto fattore è quello preponderante. “Guardando un match di Ajla dalla tribuna mi sono detto ‘Ecco come si sente Dario, ecco perché je scoppia er còre” mi ha rivelato un anno fa.
Ecco. Guardare da vicino un match di Matteo, avvertendone le emozioni e l’adrenalina, il peso degli spostamenti e degli arrovellamenti cerebrali, le esplosioni del dritto e i tremori sul lato debole, è un’esperienza che quando va bene mi fa spuntare un mazzo di capelli bianchi.
Quando va male mi fa sentire il bisogno di un ventilatore polmonare. E in questo so per certo di non essere il solo. “Quante volte ti sei detto ‘Chi me lo fa fare?’”, ho chiesto a Santopadre dopo la spremuta di nervi che è stato il match con Alcaraz. “Sempre. Me lo chiedo sempre”, mi ha risposto Vincenzo.
Per tutti questi motivi, ho seguito i primi due set della semifinale contro Nadal dalla sala stampa. A me stesso ho detto che era il modo migliore per osservare la sfida anche attraverso gli occhi neutrali e competenti dei commentatori di Channel 9 – Lleyton Hewitt, Jim Courier e Todd Woodbridge. E che era anche il modo per bacchettarli in caso di inesattezze. “Si chiama Jacopo, non Giacopo” ho scritto a Todd dopo averlo sentito storpiare il nome del fratellino di Matteo, il primo responsabile di aver trascinato Berrettini su un campo da tennis e di conseguenza noi adepti sul ciglio del burrone.
Matteo e Rafa, i 10 scatti del match - Le immagini
Anche oggi, a metà del primo set, ho scritto un messaggio a Todd. Lui ha ringraziato e si è corretto in diretta. Allora mi sono detto che sì, era cosa buona e giusta starmene al caldo della mia postazione, a soffrire da solo e in silenzio, evitando la pericolosa umidità là fuori. La cosa migliore che potessi fare era accertarmi che il numero 1 d’Italia e prossimo numero 6 del mondo venisse trattato come meritava, nonostante in campo non riuscisse a raccapezzarsi, nonostante avesse chiamato il medico per un consulto rapido e nonostante tra un uncino e l’altro di Nadal gridasse “Gioco maleee!”.
Dopo i primi due set dominati da Rafa, però, ho fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi appassionato, qualsiasi tifoso e qualsiasi amico. Ho cambiato qualcosa. Non potevo assistere inerme a quel monologo, continuando a tenere la testa sotto la sabbia. Già me lo sentivo, poi, Matteo: “Dov’eri, che non ti ho visto in tribuna?” mi avrebbe rimbrottato.
Come ha fatto ogni volta in cui non mi ha visto ad una sessione di allenamento nei suoi giorni agli Australian Open 2022. Come se il mio dovere di amico venisse molto prima di quello di giornalista - che ogni tanto avrebbe altro da fare, durante uno Slam. Tipo lavorare. E allora ho preso coraggio, zainetto e PC e mi sono incamminato verso la Rod Laver Arena.
A differenza degli incontri con Alcaraz, Carreno e Monfils, nei quali Berrettini era la testa di serie più alta, stavolta l’angolo assegnato al clan di Matteo era quello più distante dall’ingresso dei giocatori nel centrale di Melbourne Park. E anche quello più distante dallo spicchio assegnato alla tribuna stampa. Sono arrivato un attimo dopo la fine del secondo set, quando Rafa era in controllo della situazione, e sono sceso verso le prime file, sedendomi alle spalle del preparatore atletico Roberto Squadrone e del fisioterapista Ramon Punzano. Un fila più giù, il manager Richard Evans e Santopadre, che per la circostanza aveva sfoderato una mascherina nuova di zecca col logo delle ATP Finals.
“Su con la voce. Tanto veleno” le prime parole che Vincenzo ha pronunciato all’indirizzo di Matteo, che ha dato subito segnali, tenendo i primi due turni di servizio ai vantaggi e poi conquistando un ottavo game fa-vo-lo-so, sigillato con due dritti devastanti. “Ditti bravo, ditti bravo!”. Berrettini è il migliore (e peggiore) bastone di sé stesso, per cui a Vincenzo non resta che vestire i panni della carota. E spesso funziona, come all’inizio del terzo set della semifinale contro Nadal.
Con Matteo in ripresa, le telecamere hanno cominciato ad indugiare sul suo angolo e a me sono cominciati ad arrivare decine di messaggi. Chiedevano se fossi io, quel tizio semi-nascosto dalla FFP2 alle spalle di Santopadre. In tutta risposta ho tirato fuori il PC. Il computer mi avrebbe ricordato che in tutto questo avrei anche dovuto scrivere un articolo -che poi è diventato questo articolo - e soprattutto mi avrebbe fatto da copertina di Linus, mi avrebbe dato la scusa per non saltare in piedi ad ogni vincente. Ed erano tanti, perché nell’ultimo quarto d’ora del terzo set Berrettini vinceva 14 degli ultimi 16 punti, 12 degli ultimi 13.
“Energia” gridava il suo clan. Il momentum era girato dalla sua, l’adrenalina di Matteo era alta e Nadal commetteva più gratuiti nel sesto game del quarto set che in tutto il secondo parziale. Nel gioco successivo, sul 3-3, Berrettini non sfruttava però un prezioso 15-30 sul servizio dello spagnolo commettendo un paio di errori e lì il maiorchino annusava l’occasione, ricaricava le pile e guadagnava fiducia, come il suo body language rivelava chiaramente.
L’aria si faceva cupa nell’ottavo game - sul 4-3 Nadal - quando un dritto in rete di Matteo offriva allo spagnolo la prima palla break da un’ora a quella parte. Era l’antipasto del break decisivo: sul 30-40, uno scambio estenuante di 24 colpi si concludeva con un rovescio del maiorchino in corridoio. Ma invece di gasarsi per il pericolo scampato, Matteo si ritrovava a corto di fiato e a corto di forze.
Lo sguardo lucido che scambiava col suo clan sembrava una sentenza. Nei due punti successivi, Matteo non metteva mai la prima e sparava due dritti in rete. Dopo due ore e 51 Nadal poteva servire per il match. L’angolo azzurro si azzittiva. Tre minuti dopo era finita. I quattro che hanno accompagnato la splendida cavalcata australiana di Berrettini si davano il pugno e poi correvano negli spogliatoi, a far decantare la delusione e la tristezza in attesa che si trasformino in soddisfazione e orgoglio per quanto raggiunto. E che dall’aeroporto di Tullamarine ripartano con maggiore fiducia e consapevolezza. Dopo la mazzata di Torino, il Berretto che lascia Melbourne ha alzato ancora l’asticella delle aspirazioni. Ora sta a lui trovare il modo di superarla ea noi continuare a goderci il prossimo capitolo di questa splendida storia.
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