Stefano Massari, il mental coach di Matteo Berrettini, ci aiuta a comprendere il perché delle ultime tecniche che abbiamo visto a Montecarlo da parte di Djokovic e Tsitsipas
di Vincenzo Martucci | 21 aprile 2021
L’occhio indiscreto dei fotografi cattura a Montecarlo due protagonisti che cercano di catturare la concentrazione con alterne fortune. Novak Djokovic che guarda un punto ipotetico davanti a sè, poi chiude gli occhi, quindi respira profondamente e infine muove le mani come a misurare un campo da tennis immaginario o magari un avversario, poi però, una volta in partita, si smarrisce e saluta con largo anticipo il torneo del Principato. Invece Stefanos Tsitsipas che più volte inspira profondo ai cambi campi e poi confessa di aver trovato una nuova serenità proprio grazie alle tecniche di visualizzazione e respirazione, si aggiudica il primo torneo Masters 1000 della carriera prendendo la rincorsa verso altri e più importanti traguardi.
Abbiamo interpellato Stefano Massari il Mental coach di Matteo Berrettini e degli altri allievi di Vincenzo Santopadre alla Rome Tennis Academy per capire di più di queste tecniche che rappresentano l’ultimo frontiera dello sport.
Massari, con Berrettini ha provato le tecniche di respirazioni e visualizzazione?
“Ho provato sia con Matteo sia con suo fratello Jacopo a lavorare attraverso la meditazione, che comporta un lavoro specifico sulla respirazione, insieme a un’esperta del campo. Ma non hanno avvertito il desidero di approfondire. Matteo, in termini generali, ha uno spirito artistico, vede le cose in modo sempre diverso, in relazione a come sta vivendo la situazione del momento ed è restio a ripetere troppe volte la stessa esperienza. Del resto, le tecniche vanno interpretate e vissute in relazione alla persona alla quale vengono proposte. Possono essere anche fantastiche ma non sono mai perfette in assoluto. E non si può dare la 'colpa' all’atleta se non riesce ad usarle nel modo migliore. E’ come se un allenatore addossasse interamente sull’allievo la responsabilità di un colpo che il ragazzo non riesce a imparare bene. Le difficoltà possono dipendere da tanti fattori diversi, allenatore incluso. E comunque, rispetto al lavoro mentale, ci sono atleti più inclini a seguire una tecnica piuttosto che un’altra”.
Proprio per trovare le soluzioni subentra il mental coach, una figura sempre più gettonata nel tennis e nello sport moderno.
“In realtà il primo libro sul coaching, 'The Inner game of tennis' è stato scritto negli anni 70 da uno statunitense, Timothy Gallwey. Ma in assoluto è vero che la figura del mental coach ha avuto e ha uno sviluppo sempre maggiore non solo fra i professionisti di punta ma anche fra atleti di livello e classifica molto inferiore”.
Perché si ricorre a queste tecniche di respirazione e visualizzazione?
“Per migliorare la prestazione, direi. Anche se per ogni persona l'obiettivo specifico può essere diverso. Spesso le due tecniche vanno insieme, nel senso che ci si prepara alla visualizzazione con la respirazione. Inoltre, respirando in un certo modo, si possono controllare i battiti del cuore e si può gestire lo stress al cambio campo. Alcuni giocatori, poi, tirano fuori l’aria e la voce quando colpiscono la palla. Non lo fanno tanto per intimorire l’avversario o disturbarlo, ma per sbloccare il diaframma ed essere più sciolti”.
Abbiamo scoperto Djokovic respirare profondo e visualizzare con attenzione, giusto pochi minuti prima della partita. Non si sarà applicato troppo poco?
“No, l’esercizio di visualizzazione dura proprio pochi minuti. Consiste nel vedere se stessi mentre si compie un movimento, ma dall’interno, non come se ci si guardasse dal di fuori. Ci si immagina quindi di eseguire, ad esempio, il dritto ma con i tempi coi quali si effettua in realtà, né più veloce né più lento. Bisogna essere certi di immaginare il gesto tecnico corretto e di saperlo ripetere in modo giusto, altrimenti si assimila il difetto. La visualizzazione può riguardare un colpo singolo, dunque una tecnica specifica, come anche una situazione, ad esempio tenere una determinata diagonale sul dritto o sul rovescio, per allenare così la propria determinazione a non uscire dalla diagonale stessa”.
Ma per un tennista è possibile visualizzare l’intera partita?
“No. Come i calciatori, infatti, può visualizzare alcuni gesti specifici. Alcuno immaginano di alzare la coppa, il momento del trionfo. Per me, tuttavia, è sconsigliabile. Perché se nella partita reale si va nettamente sotto con il punteggio e la visualizzazione ha rappresentato una realtà molto diversa, il lavoro fatto diventa per lo meno inutile, se non controproducente. Atleti come tuffatori, saltatori e velocisti dell’atletica leggera possono visualizzare l’intera gara. Altri, che fanno sport diversi, possono visualizzare solo alcuni gesti”.
Ci si immedesima nel gesto o anche nella situazione?
“Nel gesto, ma all’interno di una situazione ben precisa. Per quanto riguarda la visualizzazione esiste a tale proposito un aneddoto che riguarda un soldato americano rientrato dalla guerra in Vietnam. Dopo essere stato anni prigioniero dei Vietcong, finalmente a casa, va a giocare a golf con gli amici. Incredibilmente, è capace di fare esattamente gli stessi colpi di quando era partito. Perché, durante la prigionia, aveva giocato a golf tutti i giorni con la mente: rivivendo tutto, dunque esattamente anche i passi che aveva fatto sul soffice green, il caldo che aveva avvertito, anche il sudore sulla maglietta e il rumore esatto del colpo all’impatto con la palla. Immedesimandosi in quei ricordi riusciva ad evadere, almeno con la mente, dalla sua prigione vietnamita per giocare ogni giorno a golf con i suoi amici. Con l’immaginazione, un’immaginazione a tutto tondo e ricca di dettagli, aveva per anni vissuto quello che non poteva vivere pienamente con il suo corpo”.
Conosce qualche altro aneddoto di visualizzazione nello sport?
“Esiste uno studio su un gruppo di karatechi. Era stato loro chiesto di immaginare di alzare ed abbassare il braccio destro per un certo numero di volte. Per poi verificare che i muscoli di quel braccio, in effetti, segnalavano un’attività maggiore dei corrispondenti muscoli del braccio sinistro. Quindi pensando, immaginando di fare quel movimento, avevano trasferito l’impulso dalla mente ai muscoli e dunque vissuto l’esperienza di alzare il braccio, quasi a tutti gli effetti”.
Miracoli della mente, l’ultima frontiera del nostro io. O è la prima?