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Campioni internazionali

Schwartzman 'gigante': ha superato ostacoli più alti di... Nadal

La commovente storia di Diego Schwartzman, semifinalista al Roland Garros dopo aver raggiunto la finale a Roma. Sfida Nadal, che ha battuto al Foro Italico. Ma nella vita ha superato difficoltà ben maggiori

di | 09 ottobre 2020

Nato ricco, diventato povero, suo nonno scappò dal treno verso il campo di concentramento, il semifinalista a sorpresa del Roland Garros batte i supereroi col suo metro e 170, gambe, cuore e cervello La prima cosa che colpisce di lui è l’altezza.

Diego Schwartzman è proprio piccolo, talmente piccolo che anche al suo paese, nell’immensa Argentina, lo chiamano proprio così: El Peque. Nell’universo degli dei della racchetta, sempre più alti e forti, veloci e reattivi, i suoi 170 centimetri d’altezza spiccano ancora di più.

Così, già a vederlo a inizio partita, quando tira la monetina a rete e posa per le foto di rito, quando si accosta ai raccattapalle, quando prende possesso del campo.

Appena poi si appresta a servire, diventa se possibile ancora più piccolo: mentre lui tira le palle con la sua fionda, con un movimento a catapulta, inarcandosi tutto e producendo un rumore elastico, dall’altra parte arrivano colpi secchi, scagliati da altezze che, sommate ai 190 centimetri, più il lancio di palla, più il salto vanno ben oltre i due metri, con risultati micidiali per le povere palle schiacciate con violenza sul terreno.

Ma lui, il piccolo-grande uomo del tennis, la rivincita della normalità sulla straordinarietà, non batte ciglio e corre, corre corre, di qua e di là, instancabile e velocissimo, sventolando il record nel record di più basso ad arrivare in semifinale al Roland Garros da Harold Salomon nel 1980.

Come gli altri “sorcetti”, come li chiamava Adriano Panatta, arriva prima all’impatto con la palla e quindi non è mai in difficoltà, è sempre in equilibrio, col suo baricentro basso, sempre capace di ribattere quei missili e di esaltarsi nella transizione difesa-attacco come conseguenze micidiali per l’avversario. Perché El Peque ha un cervello tennistico sopraffini col quale compensa largamente potenza ed altezza, e quindi colpi risolutivi. Anche se, per arrivare al punto, deve metterci sempre tanta fatica, tanto sforzo, tanta rassegnazione, sapendo che l’altro può rovinare tutti i suoi castelli di carta con un gesto ben assestato. Di potenza. Ma tanto lui rimette la testa sotto e riparte, ostinato, ben conoscendo lo spazio della sua musica ideale e, soprattutto, come disturbare quella, dell’avversario, attuando una tattica che è sempre giusta. Magari fallace, ma giusta. “Tutti mi chiedono dell’altezza, se fossi più alto avrei un servizio migliore più potenza da fondo”.

Questo è Diego Schwartzman, talmente bello nella sua avventura nel tennis e nella vita da aver conquistato da oltre un anno la passione della bellissima modella Eugenia De Martino, sulla quale qualsiasi regista tv insiste anche troppo durante le sue partite. Come si fa a non tifare per l’uomo qualunque, per uno di noi, che è anche sgraziato, che s’arrangia, che soffre continuamente ma reagisce sempre, rimbalzando gli ostacoli con una resilienza da martire e si oppone col suo stuzzicadenti ai bazooka nemici?

Tanto che, dopo averci perso nei quarti del Roland Garros col memorabile punteggio di 7-6 5-7 6-7 7-6 6-2, l’amico migliore che ha sul circuito ATP, Dominic Thiem, finalista gli ultimi due anni a Parigi, ha ammesso candidamente: “Perdere fa male, perdere al Roland Garros fa ancora più male, ma perdere con un amico e con uno come Diego fa meno male”.

L’amico-nemico è stato tre volte a due punti da due set a zero, ha servito per il terzo set, ha avuto anche un set point, è stato ancora a due punti dal vincere quel tie-break, è stato costretto al quinto set ma, dopo cinque ore, ha finalmente avuto la meglio nella solita battaglia fra Davide e Golia.

“Thiem è fortissimo, ma io devo proprio dirlo: mi sono meritato di vincere. In generale, ho continuato a fare quello che avevo fatto negli incontri precedenti: commettere pochi errori, mescolare aggressività e buone difese. Sapevo che Dominic avrebbe usato molto lo slice, sapevo di dover fare le scelte giuste e aspettare il momento esatto per scendere a rete e perdere il controllo io dei punti. Il mio gioco è un mix di aggressività e difesa, devo spingere quando posso e devo oppormi quando sono spinto dall’avversario. Ma posso sempre migliorare”.

Anche perché, a fronte degli 8 milioni di premi conquistati, vanta appena tre titoli ATP Tour, segno che si stanca molto, nel corso del torneo e, quando arriva alle partite decisive, si ritrova col serbatoio mezzo vuoto. Lottando lottando, tre settimane fa, El Peque aveva già strappato uno scalpo ancor più importante, nei quarti sulla terra rossa di Roma, sorprendendo Rafa Nadal in una umida serata sotto i pini del Foro Italico. Impresa epica, da scontare ai nipotini, che però, unita a quella contro Thiem a Parigi, ha fatto pronosticare alla signora del tennis, Chris Evert: “Ha battuto Rafa, ha battuto Dominic, non credo che possa fare un altro miracolo e ripetersi ancora contro Nadal, anche al Roland Garros”.

Schwartzman tutto questo lo sa bene, pur orgogliosissimo per l’indimenticabile cavalcata delle ultime quattro settimane: primo successo su un “top 5”, prima finale Masters 1000 (a Roma), prima semifinale Slam, primo ingresso fra i top 10”. Per ricevere, come premio a tanta fatica, il 12 volte campione a Porte d’Auteuil, Nadal il cannibale della terra rossa, col dente avvelenato con lui. Una montagna che avrebbe terrorizzato chiunque, ma che ha lasciato sereno il piccolo-grande uomo del tennis che arriva così in alto negli Slam a 28 anni. “Sto realizzando molti dei miei sogni da ragazzo, che francamente non pensavo di raggiungere. E’ un passo enorme per me, non soltanto per la mia carriera, ma anche a livello personale”.

La sua forza è altrove, è extra, e viene da molto lontano: “Il mio bisnonno da parte di mamma, era ebreo, viveva in Polonia, durante l’Olocausto fu caricato su un treno verso un campo di concentramento, che ebbe un incidente e si spezzò in due, una parte continuò la corsa l’altra si rovesciò e il mio bisnonno riuscì a fuggire via, salvandosi la vita. Quella storia mi ha insegnato come tutto possa cambiare da un momento all’altro e come bisogna essere sempre pronti ad affermare l’occasione”.

Di più ancora di più, Diego, che si chiama così in nome del mitico Diego Armando Maradona, ha molto sofferto: “Prima che io nascessi, la mia famiglia si era guadagnata una vita fantastica in Sud America, possedeva una ditta di abbigliamento e gioielli, aveva fatto un sacco di soldi. Aveva una casa in Uruguay dove andava in inverno per godersi l’estate, un’altra a Buenos Aires e un’altra fuori città. Aveva molte auto. Ma quando sono nato, la mia famiglia ha perso tutto perché il governo ha tagliato le importazioni. Senza soldi, giocare a tennis è stato difficilissimo.

"Per finanziare i miei viaggi, nei tornei, io e mia madre che mi accompagnava, ci siamo messi anche a vendere i braccialetti di gomma che erano avanzati in azienda. Quand’ho cominciato a viaggiare da solo, già a 13 anni, mi ritrovavo a piangere in aereo perché sarei voluto stare in famiglia, ma dovevo fare esperienza e dovevo farla anche se i medici, già a 13 anni, mi avevano detto che non sarei cresciuto oltre l’1.70. Oggi mi dico che non conta, ma allora è stato devastante, anche perché da junior non ho vinto granché.

Il salto di qualità l’ho fatto quando sono diventato pro. I valori che mi ha inculcato la famiglia e il lavoro sodo mi hanno portato a un livello che mai avrei immaginato. Superare tanti ostacoli mi ha reso un guerriero migliore e una persona ancora migliore. Il mio esempio dice che se uno crede in se stesso, se dà tutto quello che ha, un giorno, anche se è piccolo come me, può realizzare i propri sogni più inconfessabili”. Qualcuno è talmente grande che non osa confessarlo nemmeno a se stesso.

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