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Campioni internazionali

Il successo è un disagio? Le confessioni di Mardy Fish

Un documentario Netflix racconta le sofferenze dello statunitense, uno dei primi a parlare apertamente delle conseguenze dello stress del tennis sulla salute mentale dei giocatori. E insegna ancora oggi che mostrare le fragilità non è un segno di debolezza

di | 17 settembre 2021

Bastano cinque parole a salvare una vita. Bastano cinque parole a metter via un sogno, un desiderio cresciuto fino a diventare un ossessione, a cancellare una carriera trasformata in buco nero.

Mardy Fish racconta di quelle parole, e di molte altre, nell'intenso e per certi versi coraggioso documentario Netflix della serie "Untold". Quelle cinque parole le ascolta da sua moglie, mentre sono in macchina diretti a Flushing Meadows dove Fish deve giocare l'ottavo di finale dello US Open 2012 contro Roger Federer.

Lo statunitense, reduce dalla stagione migliore della sua carriera, piange disperato. Singhiozza, non è un giocatore che sta per andare in scena nello stadio più grande del mondo per una partita da sogno, è un condannato verso il patibolo.

Sua moglie, Stacey Gardner, gli apre gli occhi: "You don't have to play", "Non sei obbligato a giocare". Questa frase apre una porta su una stanza del cuore in cui nessuno è entrato mai. Mette di fronte alle conseguenze di un approccio allo sport che esalta la sopportazione, intende la forza come superamento delle difficoltà, insegna che mostrare paura è un segnale di debolezza. 

"Senza mia moglie, quell'idea non mi sarebbe mai passata per la testa - ammette Fish oggi nel documentario -. E non sono sicuro che oggi sarei qui".  

La sua storia è un manifesto di dedizione spinta all'estremo, un esempio di cosa voglia dire essere disposti a tutto per arrivare al successo e di quali conseguenze il successo a tutti i costi possa portare. Allora, serve fare un passo indietro.

Fin da giovanissimo, infatti, Fish è considerato un talento fuori dall'ordinario. Sviluppa un'amicizia fraterna con Andy Roddick tanto che nel 1999 va a vivere a casa sua, con la famiglia di A-Rod. E con suo padre, veterano dell'esercito, che lo sveglia alle cinque del mattino per fare le flessioni. "Siamo come fratelli" raccontano, e come fratelli diventano tremendamente competitivi. Su tutto, in campo e fuori.

Crescono insieme, emergono insieme dai tornei junior, dai Challenger, si fanno strada nel circuito maggiore con la responsabilità di essere i nuovi protagonisti del tennis USA dopo l'addio di Sampras e poi di Agassi. Roddick è un lampo, vince lo US Open del 2003 e diventa numero 1 del mondo. Fish è in seconda fila, e dall'amico perde nove volte di fila tra il 2003 e il 2008. Più volte perde partite lottate, 7-6 al terzo in finale a Cincinnati nel 2003, 76 64 in finale a San Jose l'anno dopo al termine di un tiebreak da 28 punti.

Ricordando oggi quelle stagioni, Roddick riesce ad essere illuminante, dote che ha mostrato di frequente in carriera in interviste e conferenze stampa. Nel dialogo per molti aspetti centrale di tutto il documentario, A-Rod spiega che "i giocatori considerati i migliori di sempre hanno tutti un atteggiamento del tipo: ti spezzo in due, ti taglio la testa, ti distruggo per vincere. A quel punto della sua carriera, credo che Mardy non fosse pronto a fare quello"

"Non è che non volessi - gli risponde Fish -, semplicemente non avevo capito. Non ci ero arrivato". Però, nelle poche successive parole di Roddick c'è tutto, c'è la spiegazione del successo e l'inizio della fine. "Mardy è uno dei pochissimi - ha detto - che abbia mai corretto il suo approccio". Mardy diventa qualcun altro.

Cambia regime di allenamento, si sottopone a ritmi sfiancanti per chiunque, è come un Marine pronto alla missione.

Nel 2010 batte Roddick due volte, negli ultimi due incontri in singolare, in semifinale ad Atlanta e Cincinnati. Nel 2011 entra per la prima volta in Top 10, vince 43 partite (suo record personale in una singola stagione) e si qualifica per le Nitto ATP Finals.

Tocca il best ranking di numero 7 del mondo, a fine anno è numero 1 USA. Inizia a mantenere le promesse, e si prepara a un 2012 che dovrebbe essere di ulteriore crescita. Ma non sarà così.

"Il mio corpo, la mia mente non potevano reggere a tutto quello" confessa. Sta giocando alla grande, ma è concentrato sempre e solo sul fare meglio.

Non funziona. Il suo cuore comincia ad accelerare, senza controllo e all'improvviso. Si opera, l'intervento di ablazione cardiaca riesce a ridurre per un po' le manifestazioni del cuore "matto".

L'operazione serve a creare cicatrici in piccole zone del cuore affette da disturbi del ritmo cardiaci per evitare che gli impulsi elettrici anomali si muovano attraverso il cuore.

Roger Federer e Mardy Fish a Cincinnati nel 2010

Ma il problema di Fish non è solo fisiologico. L'aritmia è una manifestazione di un'ansia che cova nell'ombra. Quando torna in campo comincia ad avvertire pensieri negativi, un senso d'ansia crescente che non lo fa dormire. I pensieri finiscono presto per dominarlo, ogni minuto di ogni ora di ogni giorno. Tranne quando è in campo.

Quello è un avamposto, l'ultima difesa, l'ultimo luogo in cui ancora esercitare controllo e potere. Almeno fino al terzo turno dello US Open 2012. Il ragazzo abituato alla disciplina racconta quel momento come un'invasione. Sta giocando in sessione serale, contro Gilles Simon. L'Arthur Ashe è pieno, son lì tutti per lui. Fish è avanti due set a uno.

Sul 3-2 nel quarto, guarda l'orologio. E' l'una e un quarto del mattino. Tanto basta. Il cuore accelera, la mente va senza controllo: "Domani mi sentirò malissimo, finiremo tardissimo, poi devo fare la conferenza stampa, i massaggi, devo mangiare..." e via così. Fish vince 6-3 al quarto ma dice di non ricordare niente di quanto successo negli ultimi game. Gioca senza pensare, come un automa. Al momento dell'intervista chiede una sola cosa a un ignaro Justin Gimelstob: "Facciamo presto".

E siamo al viaggio in macchina, prima della partita attesissima dalla CBS, la tv che trasmette il torneo. Ma la partita non ci sarà perché sua moglie Stacey con cinque parole gli toglie all'improvviso un peso enorme dalle spalle.

Fish allora, dal giorno della conferenza stampa in cui annuncia il ritiro dal torneo, inizia a fare quello che gli avevano insegnato a non fare mai. Si confida, mostra le sue fragilità, le debolezze. L'effetto lo sorprende, si sente più forte. Anche questo gli salva la vita.

Il fortissimo disturbo d'ansia generalizzato non scompare, ma è sotto controllo. Ci combatte ogni giorno, e per ora vince lui. Capitano di Coppa Davis degli USA, che saranno di scena nel girone a Torino contro l'Italia, oggi Fish racconta la sua storia sperando di poter essere d'aiuto.

Lo hanno contattato atleti e allenatori. Ha stretto rapporti importanti, anche con Naomi Osaka che ha portato in prima pagina le conseguenze dello stress nel tennis sulla salute mentale.

Alla giapponese, a sua volta protagonista di un documentario Netflix, darebbe un consiglio semplice. "Non è obbligata a colpire una sola altra pallina da tennis nella sua vita - ha detto al New York Times -, se è questo che dovesse renderla felice. La questione sta nel trovare quello che le fa desiderare di alzarsi la mattina".

Al mondo, ai suoi tifosi, a chiunque sia disposto ad ascoltare la sua storia, racconta infine che l'espressione 'salute mentale' non gli piace. "E' salute e basta - dichiara -, il cervello è parte del tuo corpo. E' un infortunio, anche se non riesci a vederlo". Ma in troppi agli atleti di successo sono ancora disposti a perdonare, verrebbe da dire, solo gli infortuni che si vedono.

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