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Campioni internazionali

Il tennis del futuro: chi l’ha visto non lo scorda più

L’impressionante supremazia del 18enne Alcaraz sul gioco di Stefanos Tsitsipas, tra i principali aspiranti alla successione dei Djokovic-Nadal-Federer ha regalato un tipo di emozione non capita spesso di vivere. E che apre nuovi scenari e nuovi riferimenti nello sviluppo dello sport di vertice

di | 04 settembre 2021

Carlos Alcaraz è nato il 5 maggio 2003 a El Palmar (Murcia)

Carlos Alcaraz è nato il 5 maggio 2003 a El Palmar (Murcia)

Il futuro, come il natale nella pubblicità del pandoro, quando arriva, arriva. L’importante è che tu te ne accorga. Per due buoni motivi: il primo è goderti lo spettacolo, la festa. Il secondo è non farti trovare in costume da bagno, con le infradito, davanti al grande abete del Rockfeller Centre mentre comincia nevicare.

Anche perché dal futuro, checché ne dica la cinematografia, non si torna indietro. Specie se indossi le infradito.

Il tennis del futuro, per chi se ne è accorto, si è palesato ieri sera nell’Arthur Ashe Stadium. Improvvisamente. Ed è stato scioccante, perché è stato talmente veloce da saltare una generazione che non si è ancora presa il presente. E’ stato anche indimenticabile, come “la giarrettiera rossa” che, come dice Paolo Conte, “chi l’ha vista non la scorda più”.

Sia ben chiaro: non stiamo parlando semplicemente del fatto che Carlos Alcaraz, 18 anni, n.55 del mondo, ha battuto Stefanos Tsitsipas, n.3, confermando le attese che parlano di lui, da almeno un paio di stagioni, come uno dei grandi protagonisti del futuro. Stiamo parlando del come l’ha battuto e di come, con quello che ha mostrato in campo, ha segnato una nuova linea di demarcazione sul concetto di “tennis di alto livello”.

La vicenda è particolarmente interessante perché è anche l’incrocio casuale del destino ci ha messo del suo, facendo in modo che il ragazzo spagnolo allenato da Juan Carlos Ferrero incrociasse la racchetta, alla sua prima apparizione nello stadio più grande del mondo, con il giocatore che più di ogni altro incarna la prossima successione ai fenomenali Big 3: Djokovic, Federer, Nadal.

Prima ancora che completi tutti i riti di passaggio, che vinca il primo Slam, che arrivi in testa alla classifica, il greco, insieme a Daniil Medvedev e Alexander Zverev, ha dimostrato di possedere un tennis che, quando ha la giusta taratura, è incontenibile anche per Novak Djokovic, il più forte di oggi, forse il più forte di sempre.

Non a caso nell’ultima finale del Roland Garros il serbo è stato formidabile nell’avere la meglio sull’ateniese (dopo essere stato sotto di sue set) non soverchiandolo nel gioco (perché non ne sarebbe stato in grado) ma facendolo giocare male, togliendogli i riferimenti, non lasciandogli 'fare lo Tsitsipas'.

Perché Stefanos, formidabile atleta, tira più forte di Nole. Batte missili, picchia un grande diritto e affonda uno spettacolare rovescio a una mano sia incrociato che in lungolinea. Attacca, viene a rete, ma quando è necessario si difende come un leone. Insomma pareva avere tutto per essere il prossimo n.1, litigando per il trono con Medvedev e Zverev, anche loro competitivi ai massimi livelli anche se, forse, meno completi e versatili.

Dopo lo squarcio temporale di ieri sera, quella folgorante, improvvisa visione del futuro, tutte queste certezze non ci sono più. Semplicemente perché Carlos Alcaraz ha disposto del tennis di un ottimo Tsitsipas come si trattasse di cosa già vista e prevedibile. Ha preso quello che oggi è il gioco più esplosivo del pianeta e l’ha usato per accendersi le candeline sulla torta. Semplicemente la massima velocità di Tsitsipas era per lui un’andatura all’80 %. Gli lasciava il tempo per scegliere dove tirare i suoi di missili, con grande margine di sicurezza ed imprevedibilità. Il suo tennis era in un’altra dimensione. Tsitsipas a tratti, pareva lento, prevedibile. Superato.

La velocità di palla di Carlos è incredibile, mai visto nessuno colpire così forte. 

Stefanos Tsitsipas

Una situazione così l’abbiamo vista nel 1990 con l’esplosione di Pete Sampras, proprio agli Us Open.

Lo statunitense aveva 19 anni e fece impressione il modo in cui superò nei quarti di finale l’allora n.3 del mondo, Ivan Lendl. Il ceco, naturalizzato americano, era un Terminator nel tennis da fondacampo e si esaltava sui campi duri degli States. Aveva tre vittorie a Flushing Meadows nel palmares. Sampras non solo lo disorientò con il servizio, devastante. Ma quando, negli scambi, Pete entrava con il diritto, Terminator era sempre in ritardo. Eppure il teenager statunitense di origini greche, non pareva far fatica o dover spingere particolarmente forte. Aveva un altro tempo, un altro ritmo. Era il futuro.

E lo dimostrò ancora di più il giorno della finale quando fece sembrare fuori tempo anche il suo coetaneo (in realtà più anziano di un anno) Andre Agassi. Servizio e diritto, lasciati andare in scioltezza erano troppo anche per un fenomeno di reattività come il Kid di Las Vegas. Non a caso Sampras era talmente avanti che dominò per un decennio, chiuse 6 volte l’anno da n.1 e conquistò 14 Slam, allora un primato che si pensava imbattibile.

Fu proprio agli Us Open del 2000 (chissà perché sempre a New York? Forse perché i campi duri sono quelli che più valorizzano la velocità e hanno un rimbalzo più regolare sia della terra battuta che dell’erba) che il futuro decise di ripresentarsi.

Finale del torneo, Sampras in gran forma e recente vincitore per la settima volta a Wimbledon; dall’altra parte della rete c'è il russo Marat Safin, n.7 del mondo. Uno sfidante interessante, un po’ come poteva essere Medvedev per Nadal nel 2019.

Però appena iniziano le danze ci si accorge che c’è qualcosa che non va. O meglio qualcosa cui non eravamo abituati. Quando Sampras picchia il suo diritto, dall’altra parte della rete non succede alcunchè. Safin lo accoglie nella racchetta come nulla fosse e rimanda la palla di là, ancora più veloce, in scioltezza. Il ritmo del russo è più alto, la palla sempre profonda e sempre meno prevedibile, proprio come per Tsitsipas con Alcaraz ieri sera. E’ Sampras a essere quasi sempre in ritardo, a non avere margine, a sbagliare o a venire trafitto continuamente. Il risultato finale fu scioccante: 6-4 6-3 6-3 per Safin. La fine di un’era, anche se Pistol Pete avrebbe vinto ancora uno Us Open, due anni dopo, con un romantico e formidabile colpo di coda del passato.

Un fatto simile si rivide, sempre a New York, nella finale del 2005, quando Andre Agassi tenne testa per i primi due set a un certo Federer. Poi però al tie-break Roger “va in un luogo che non riconosco. Trova una marcia che gli altri giocatori semplicemente non hanno. Vince 7-1”, racconta l’americano nel suo libro Open. “Avvicinandomi alla rete sono sicuro di aver perso con il migliore, l’Everest della prossima generazione”. Il futuro.

E da lì, rieccoci a ieri sera, a Flushing Meadows. Con un grande distinguo però: lo straniamento, la sensazione che il giocatore 'A' giocasse con un tempo, a un ritmo troppo alto per il giocatore 'B', non è riconducibile a un naturale ricambio generazionale, come tra Lendl e Sampras, tra Agassi e Federer. Quello di ieri era un futuro che cercava di conquistare il presente (Tsitsipas), sorpassato a razzo da un futuro ancora più innovativo (Alcaraz). Come uno smartphone di cui esce la versione successiva mentre ancora la precedente non è arrivata nei negozi.

Ora a New York potrà succedere di tutto. Magari il giovane Alcaraz inciampa nella prossima partita con il tedesco Gojowczjk (che è uno difficile anche solo da pronunciare) ma nulla potrà toglierci il gusto di aver visto uno squarcio di tennis del futuro. Né la convinzione che, se dovesse giocare sempre come ieri sera, Alcaraz sia il nuovo giocatore da battere. E il suo tennis, il nuovo riferimento. 

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