Senza spettatori, lo sport ha perso non solo l’atmosfera ma un protagonista importante. Che ha influenzato i giocatori, i più forti come i più deboli…
di Vincenzo Martucci | 25 novembre 2020
Chi è il numero 1 del tennis? Con uno sforzo di auto-ironia ITF, ATP e WTA dovrebbero assegnare il trofeo al silenzio. Il terrificante e inedito silenzio che ha accompagnato le partite nel dopo-lockdown, salvo poche, sporadiche, limitate eccezioni. La più clamorosa è stata quella del Roland Garros, dove lo sciovinismo per il bambino prodigio Hugo Gaston ha fatto saltare qualsiasi norma di distanza e di sicurezza, aumentando a dismisura e riammassando la folla in tribuna come se nulla fosse.
Senza pubblico, con gli spalti vuoti, quest’anno, al di là dei personaggi e dei match, che pure sono stati notevoli lasciando un segno importante almeno sotto il profilo agonistico e storico, è mancato sempre qualcosa. Come atmosfera, come rumore, come presenza stessa di un’entità che non decide, ma influenza, che non partecipa fisicamente, ma si percepisce, che è incontrollabile e pericolosa insieme, ma anche utile, familiare.
Le tribune semi-deserte (solo mille spettatori al giorno) del Roland Garros 2020 (foto Getty Images)
Senza pubblico, è mancato anche il solito sciocco (eufemismo) che, dalla “piccionaia” grida il nome di uno dei due protagonisti, e il suo amico sciocco (altro eufemismo) che gli risponde urlando il nome dell’avversario, gli incitamenti cantati e le “ola” che coinvolgono tutto lo stadio nella passione per lo sport e nel gusto per lo spettacolo.
Reazioni discutibili? Reazioni sbagliate? Scegliete voi, di certo, reazioni che una volta sparite di forza, sono mancate tantissimo. E’ mancato il vero tifoso, felice di essere sul posto, finalmente, ad esternare la sua passione, ed è mancato il soggetto che si agita e magari disturba anche senza un perché, solo per agitare l’aria, per essere presente, per farsi notare, per ribellarsi alla modalità: “Stai seduto e zitto”.
E’ mancato lo spettatore che arriva tardi e non trova il suo posto o, peggio, scopre che è occupato, così resta all’impiedi e disturba la ripresa del gioco, malgrado gli avvertimenti del giudice di sedia. E’ mancato anche il tradizionale richiamo dell’arbitro in qualsiasi stadio del mondo: “Silenzio per favore, seduti per favore”.
Il pubblico è mancato di più agli atleti che ci sono abituati maggiormente, a quelli che lo sfruttano come alleato, sommandolo alle proprie qualità, schierandolo insieme alla pressione che viene dalla partita, dal torneo, dall’avversario, dalla gara stessa: vuoi mettere un bel colpo, o meglio ancora un brutto colpo, con e senza gli “Oohh” e i “Buuhh”, senza gli applausi, senza euforia e delusione, senza esperienza di altre situazioni analoghe? Il pubblico amplifica e smorza, accompagna emozioni e situazioni, attualizza nel bene e nel male la realtà del momento, e quei ricorda esattamente ai protagonisti dove si trova e perché, e contro chi.
L’atleta gareggia prima di tutto per se stesso, in second’ordine per dare una soddisfazione alle persone care e prendersi una rivincita su chi non crede o non ha creduto in lui, è mosso dall’orgoglio di ottenere una buona prestazione in quel determinato torneo e in quel determinato turno del tabellone, magari ha anche particolari motivi di rivalsa verso questo o quell’avversario. E poi, certo, pensa anche alla vil pecunia, ai premi e ai punti in classifica, a come gli può cambiare la vita una vittoria o una sconfitta, alle spese che si accumulano come per qualsiasi mortale e che possono essere azzerate di colpo con colpo di bacchetta magica. L’atleta, però, è anche un artista, un amante del bello - che può coincidere col narcisismo ma sempre amore per il bello rimane -, per cui gareggia anche per il pubblico, per la soddisfazione di esibirsi davanti a tanta gente che ha pagato il biglietto e ha scelto la sua partita, il suo stile, la sua personalità rispetto a quella del giocatore che gioca nel campo accanto. E poiché si nutre dell’adrenalina che solo la partita gli può dare, sa bene che quella sensazione diventa straordinaria proprio perché è condita dalle emozioni della gente che lo circonda.
Soprattutto i campioni, quelli a volte altezzosi, e spesso abituati ad un trattamento particolare, quelli privilegiati dal potersi esibire sempre e solo sui campi principali, e quindi con le tribune più spaziose, hanno scoperto sulla loro pelle quanto sia angoscioso il silenzio degli spalti. Nel post-lockdown, per la prima volta forse da quando imbracciano una racchetta, gli assi avrebbero sicuramente preferito giocare su campi secondari, più raccolti, con meno spazio vuoto attorno, quelli che sono stati felici di abbandonare, insieme i tornei di primo livello dell’ATP Tour.
Perché, per sentirsi più vivi, per scuotersi e caricarsi, si sono trovati all’improvviso disarmati, o almeno più deboli, sicuramente straniti, senza l’abituale compagno di avventure. Così, hanno avuto bisogno di urlare alla luna di distruggere una racchetta in più, di cercare altrove gli stimoli per reagire ai continui alti e bassi della partita. Senza pubblico, si sono sentiti più soli e disperati in quella battaglia inventata dal diavolo chiamata tennis.
Forse anche per questo l’artista numero 1, Roger Federer, già in ambasce all’idea dei viaggi con la sua tribù all’epoca del Corona Virus, ha preferito annullare tutte le prove in calendario, sulla scia del torneo-principe, il suo prediletto Wimbledon.
Forse è anche per questo che Novak Djokovic non ha trovato quella forza in più per riemergere da quei down di tensione cui va soggetto: a chi regalare il suo cuore nel dopo-partita se le quattro tribune di cui è circondato il campo sono vuote?
La sindrome del silenzio ha colpito anche l’agonista ideale, Rafa Nadal, che tanto poco si fa influenzare dai fattori esterni: sai quanto gli sarebbe stato utile quell’aiutino in più da parte del pubblico alle ATP Finals per scovare dal profondo del suo io quel guizzo per sfatare il tabù Super8?
Di certo, i più forti hanno accusato l’assenza del pubblico più dei secondi e e ancor più dei terzi. Si è visto dai risultati, si è capito dalle reazioni degli outsider, dei giovani, dei neofiti, che hanno potuto alleggerirsi ancor di più del fattore emozione, ed esprimersi più liberamente, basandosi solo sul tennis puro e sentendosi ancor più alla pari con l’avversario.
Che, per una volta, non si è accompagnato più al ricordo di grandi partite, di grandi cornici, di grandi tornei, ma è apparso loro come uno, unico, senza i fortissimi orpelli del suo passato. E quindi ancora più invalicabile e invincibile.
Il silenzio del pubblico è stato angoscioso, è stato protagonista e rimarrà per sempre nei ricordi di chi l’ha vissuto da vicino in quest’orrido 2020. Che rimarrà indimenticabile per la differenza col passato, a confronto con l’esperienza di sempre, rammentandosi una sensazione di disagio, brutta, da evitare. Una senzadio che, nei tornei indoor, è stata ancor più difficile da sostenere. Al di là delle voci amiche del proprio clan che sono arrivate più nitide che mai, il mancato rimbombo della gente assiepata tutt’attorno, i colori, i gesti, l’umanità, che sono venuti a mancare all’improvviso, hanno messo davvero a dura prova i tennisti. Perché in un ambiente chiuso le presenze si avvertono di più anche se si è soltanto in due in una stanza, figurarsi in un’arena da 17mila spettatori più gli addetti ai lavori, con libertà di tifare e di esternare i propri sentimenti verso questo o quel beniamino.
Alla fine, nella vita ci si abitua a tutto, e anche i tennisti sono riusciti ad esprimersi a livello più alto a dispetto dell’angoscioso silenzio del pubblico. Il vero numero 1 della stagione.