

Andy Murray è stato il primo campionissimo a scegliere i Giochi Olimpici per dire addio al tennis, ascoltando il fisico martoriato. Un addio particolare, in un universo fatto anche di tanti modi diversi di appendere la racchetta al chiodo: chi all’apice, chi per ragioni fisiche, chi perché non ne può più. E anche chi smette e poi se ne pente
09 agosto 2024
Il mondo è bello perché è vario, il tennis anche. Nei percorsi dei giocatori, nei modi di giocare e anche in quelli di dire basta, appendendo – come si suol dire – la racchetta al celebre chiodo. La storia racconta di tantissimi modi diversi di ritirarsi: chi dice basta all’apice, chi perché il proprio fisico non gli permette più gli sforzi necessari, chi si ferma un po’ a sorpresa poi se ne pente e ritorna, e anche chi continua a rimandare in attesa che arrivi finalmente il momento giusto.
L’ultimo big a dire ufficialmente basta è stato Andy Murray, il campionissimo capace di aprire uno spiraglio nei Big Three che per un periodo sono stati (giustissimamente) Fab Four. Sir Andy da Dunblane ha scelto di salutare alle Olimpiadi: mossa particolare ma che nel suo caso ha pienamente senso, dato che sono stati proprio i Giochi la competizione che nel 2012 a Londra gli ha cambiato la carriera, con l’Oro diventato l’antipasto al primo titolo Slam e alla consacrazione attesa da tempo. Poi, il britannico ha vinto anche a Rio 2016 diventando l’unico nella storia a conquistare per due volte l’Oro in singolare, creando un legame coi Cinque Cerchi che l’ha spinto a scegliere Parigi 2024 per l’ultimo ballo della sua carriera.
E poi non voleva farlo solo come Andy Murray, ma anche come atleta di quella Gran Bretagna sempre rappresentata col cuore in mano, vedi la Coppa Davis vinta da praticamente da solo nel 2015, con 11 punti su 12. Trattandosi di un evento unico nel suo genere, a Parigi è mancata la festa d’addio. Ma Murray ha avuto comunque il tributo che meritava da parte di un mondo della racchetta che inizialmente non l’aveva troppo capito, ma poi l’ha amato al pari di tante altre star.
L’addio di Murray si inserisce nell’elenco dei ritiri per questioni fisiche: negli anni il suo corpo gli ha dato vari segnali, fino a obbligarlo a rassegnarsi. Un po’ come era stato per Roger Federer, il quale però per dire addio scelse un evento cucito sulla propria pelle come la Laver Cup, regalando un’ultima pagina da lacrime (anche sue e dei colleghi) agli appassionati di tutto il mondo, con la scena iconica del pianto in panchina insieme all’amico-rivale di sempre Rafael Nadal.
E chissà che non possa essere proprio lo stesso evento, quest’anno in programma dal 20 al 22 settembre a Berlino, ad accompagnare l’addio anche di Rafa, che sin qui è stato piuttosto vago sul proprio ritiro, salutando alcuni tornei sì e altri no e creando un po’ di confusione. Con buona probabilità è lui il primo a non avere le idee molto chiare, perché il corpo gli dice una cosa, la testa un’altra e non c’è modo di trovare un compromesso. Risultati alla mano verrebbe da suggerire lo stop, ma ognuno è libero di scegliere per se stesso, a maggior ragione se fa Nadal di cognome e la decisione riguarda la racchetta.
Di certo, tuttavia, è più gustoso un addio all’apice, magari con un titolo Slam in braccio come fece nel 2002 una leggenda come 'Pistol Pete' Sampras, completando il proprio Tour d’addio con una imprevedibile vittoria allo Us Open. O quanto ripetuto tredici anni più tardi dalla nostra Flavia Pennetta che si è presa il titolo a Flushing Meadows e nel discorso post premiazione ha comunicato l’intenzione di smettere a fine stagione. Una decisione presa (nel suo caso) già prima del trionfo newyorkese, ma diventata epica proprio in virtù dell’occasione scelta per l’annuncio, in mondovisione nel momento più importante della sua vita sportiva. Raggiunto l’obiettivo di una vita si è convinta che potesse davvero bastare così.
Il caso della Pennetta, capace di farsi da parte all’apice assoluto, stride con numerosi altri ritiri storici del circuito femminile, da parte di campionesse che hanno detto basta molto presto ma poi hanno deciso di tornare sui propri passi, perché evidentemente si sono rese conto di aver ancora qualcosa da dare. Uno dei casi più celebri fu quello di Justine Henin, che nel 2008 si ritirò quando occupava la prima posizione mondiale, salvo poi annunciare il ritorno (anche se non è durato granché) un anno più tardi.
Come lei anche la connazionale Kim Clijsters, che invece si è ritirata addirittura tre volte: la prima nel 2007, la seconda nel 2012 (dopo che una volta rientrata era riuscita a vincere altri tre titoli Slam) e la terza nel 2022, dopo una nuova parentesi agonistica di due anni o poco più, avara di risultati. Ritiro e rientro anni dopo anche per un’altra ex numero uno come Caroline Wozniacki, in attività tutt’ora, tornata nel 2023 dopo il ritiro di tre anni prima. Non sta ottenendo i risultati di un tempo, ma la danese è contenta così.
Celebri anche i casi di Bjorn Borg e Thomas Muster: il primo si ritirò giovanissimo e poi tentò il rientro sette anni dopo, collezionando 12 primi turni in 12 tornei. Il secondo, fermatosi a 33 anni, rientrò a 43 fra 2010 e 2011. Un ritorno concreto con 25 tornei giocati in due anni, la gran parte Challenger, ma due sole partite vinte. Cosa ne deriva? Le cosiddette seconde carriere non sono praticamente mai al livello delle prime, ma non sempre sono i risultati a determinare il valore e il successo di una scelta. Ognuno può prendere le decisioni che vuole, senza fare torti a nessuno: il bello dello sport è anche questo.
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